Sospetto che sia stato soprattutto il successo de Il nome della rosa a sollecitare negli anni ottanta il dibattito italiano sul «bestseller di qualità» (iniziato con il saggio di Gian Carlo Ferretti del 1983 Il best seller all’italiana. Fortune e formule del romanzo «di qualità»), e se con questa etichetta vogliamo intendere non semplicemente un bel libro che inaspettatamente si è imposto sul mercato, ma un libro colto, oltre che bello, e che almeno a posteriori sembra progettato per piacere anche alle masse, sono certo che Eco di un tale genere letterario possedesse il segreto. Non voglio dire che Il nome della rosa sia stato «scritto al tavolino», se non altro perché il tavolino non sarebbe bastato e ci volevano anche il genio e la vasta ma profonda cultura del suo autore, ma non mi pare irrilevante il fatto che Eco, avendo studiato la cultura di massa, conoscesse bene le ragioni della qualità al tempo stesso poetica e «popolare» di certi suoi miracolosi prodotti.
Nell’introduzione del 1962 ad Arriva Charlie Brown!, confluita due anni dopo in Apocalittici e integrati, osservava che i fumetti di Schulz (il corsivo è mio) «affascinano con uguale intensità i grandi sofisticati e i bambini, come se ciascuno ci trovasse qualcosa per sé […], fruibile in due chiavi diverse». E in un articolo del 1975 per L’Espresso, poi incluso nel 1977 in Dalla periferia dell’impero, ha scritto a proposito del film Casablanca: «Quando tutti gli archetipi irrompono […], si raggiungono profondità omeriche. Due cliché ci fanno ridere. Cento cliché ci commuovono». Credo che le due regole che si possono ricavare da queste due affermazioni ci aiutino a spiegare l’enorme fortuna de Il nome del rosa e le sue oltre cinquanta traduzioni.
Applicando la prima regola, Eco ha scritto un romanzo con molteplici livelli di lettura corrispondenti ad altrettanti livelli socio-culturali del pubblico. Nel 1979, in Lector in fabula aveva sostenuto che ogni testo narrativo postula un «lettore modello», cioè un lettore dotato delle competenze necessarie per far funzionare, con la sua collaborazione, la macchina testuale. Il nome della rosa è una macchina assai complessa, poiché prevede molti lettori modello nei quali moltissimi lettori empirici hanno potuto riconoscersi.
Questa stratificazione di livelli di lettura, che per certi aspetti è un analogo secolarizzato della quadripartizione del senso prevista dall’ «allegorismo» medievale, si intreccia, e in parte si sovrappone, alla molteplicità dei generi letterari – romanzo storico, poliziesco, d’appendice, parodistico, politico a «chiave», citazionista, metanarrativo, semiotico, filosofico, teologico – all’intersezione dei quali Il nome della rosa si colloca.
Qui la prima regola trapassa nella seconda, che raccomanda di moltiplicare i cliché. Come in Casablanca, ma in maniera programmatica e pienamente consapevole, nel romanzo di Eco «gli archetipi ci sono proprio tutti, perché […] è la citazione di mille altri film», anzi libri. La seconda regola, per altro, è subordinata alla prima. Nel caso de Il nome della rosa non si tratta infatti solo di un accumulo di cliché nel senso peggiorativo del termine (Casablanca restava per Eco «un modestissimo film»), ma anche di topoi letterari e filosofici «alti».
Ed ecco allora, per citare solo alcuni di questi topoi e cliché, assemblarsi in una struttura imponente il plot poliziesco che si dipana sulla falsariga di una filastrocca (sostituita da una pericope dell’Apocalisse), la coppia di investigatori calcata su Holmes e Watson, il messaggio cifrato, la caratterizzazione da feuilleton o da romanzo «gotico» di alcuni personaggi, il libro maledetto (il perduto secondo libro della Poetica di Aristotele!), il labirinto e altre allusioni borgesiane, la concezione medievale del mondo come libro o foresta di simboli, la disputa sugli universali che oppose realisti e nominalisti, la teologia negativa. Ce n’è per tutti e nessuno si sentirà escluso dalla festa. Gli archetipi bassi saranno recuperati a un livello di lettura alto come esibizione di ironico citazionismo. Gli archetipi alti funzioneranno ottimamente a un livello di lettura basso come elementi di «arredo, nel senso che le citazioni teologico-filosofiche, e persino quelle in latino, potranno essere godute anche da chi non conosce né il latino né la filosofia del Medioevo, dal momento che non è necessario essere esperti di storia dell’arredamento e dell’arte per ammirare un bel salotto e sentirsi orgogliosi di esservi stati ammessi.
Alternando precise descrizioni ambientali, dialoghi piani ma densi di concetti e pagine di fluente prosa quasi joyciana, il primo romanzo di Eco ha saputo diventare un libro «di culto» e suscitare una vasta bibliografia esegetica, destinata non solo a critici letterari e filosofi, ma anche a una sorta di fandom trasversale ai livelli socio-culturali del suo pubblico. Con questi incantesimi ha conquistato, per cominciare, l’Italia, la Francia, la Germania e poi soprattutto, dal nostro punto di vista, l’America, che vi ha visto rispecchiata la propria sensibilità postmoderna. Perché dobbiamo anche ammettere che Il nome della rosa, come induce a pensare l’infittirsi delle sue traduzioni a partire dal 1983, se non fosse passato dalla traduzione americana (di William Weaver) difficilmente sarebbe oggi annoverato tra i tre libri italiani più tradotti nel mondo.