Federica Fracassi tra Marco Bellocchio e Giovanni Testori

A Cannes niente tappeto rosso, ma la proiezione festivaliera vista assieme ai compagni di film e al regista, “il più giovane di tutti, che dà la biada agli altri”.

Rapito è il quarto film che Federica Fracassi interpreta per Marco Bellocchio. Nel precedente Esterno notte, vincitore di quattro David di Donatello, era una suora convinta di aver scoperto il nascondiglio di Moro sequestrato. Un ruolo, quello della suora, che – “forse per i miei colori che ispirano più spiritualità che sensualità, o anche perché ormai ho superato i 50 anni e quindi o il velo o la strega” – le tocca spesso, sia al cinema sia in teatro.

L’attrice Federica Fracassi

Così l’abbiamo vista nella Monaca di Monza di Giovanni Testori, adattata da Valter Malosti e interrotta dal lockdown del Covid. Così la rivedremo in autunno al Piccolo Teatro in un altro Testori: I promessi sposi alla prova, che Andrée Ruth Shammah torna a dirigere (la prima volta fu nel 1984) con un nuovo cast, dove Federica è Marianna de Leyva.

Con lo scrittore e drammaturgo, lombardo come lei nata a Cornaredo, di cui quest’anno ricorrono gli anniversari (un secolo dalla nascita, 30 anni dalla morte), l’attrice ha una lunga frequentazione.

Al Franco Parenti ha da poco interpretato un applauditissimo Testori con/sonante in cui (con Anan Della Rosa, Anna Nogara, Marina Rocco e la partecipazione di Andrea Soffiantini) ha dato suono alla carnalità della lingua testoriana, fiato alle sue consonanti.

Dove comincia il suo incontro con Testori?

Mi sono avvicinata prima come spettatrice, vedendo i Tre lai di Tiezzi e Lombardi e gli Scarrozzanti (la trilogia di Ambleto, Macbetto, Edipus, ndr). Di quegli spettacoli, a parte il forte impatto visivo, mi è rimasta la musicalità e la carnalità della parola. Da lombarda, sentivo risuonare, riconoscevo lo stesso mio impasto linguistico. Ma mi chiedevo anche come si facesse a mettersi in bocca queste parole, perché l’interprete deve proprio incarnarle altrimenti non esce niente. Poi, ho visto che molti attori che stimavo avevano scelto Testori come banco di prova, ho capito che c’era bisogno allo stesso tempo di una grande padronanza tecnica, ma anche di calore e generosità, non bisognava mai cadere nel virtuosismo. Mi riferisco ad attori come lo stesso Sandro Lombardi ma anche Franco Branciaroli, oppure Fabrizio Gifuni nel Dio di Roserio.

Quando è passata da spettatrice a interprete?

Con il Il Teatro i e Renzo Martinelli, abbiamo deciso di fare Erodias. Poi, abbiamo realizzato un volume, Ritratti miei di me, che raccoglieva testimonianze diverse su Testori. Dopo La monaca di Monza mi sono avvicinata anche a lui come critico d’arte, ai suoi disegni, durante il lockdown nei Lunedì a Casa Testori leggevo le sue recensioni. I promessi sposi alla prova che farò al Piccolo sono la mia terza declinazione di Testori: con Erodias, di cui stiamo progettando un reading al Festivaletteratura di Mantova, e i Tre lai c’è stato l’approccio all’idioletto, con La monaca di Monza quello all’italiano, qua torna la figura della monaca che, però, non è solo Gertrude ma è anche l’amante del maestro, una donna piena di dolore.

Nel suo mestiere di attrice e nella scelta degli spettacoli, qual è il peso della parola?

Amo la fluvialità, mentre la drammaturgia dialogica in teatro mi è più distante. Sono molto attirata da questa lava di parole da dominare. Me per rendere questi testi bisogna essere molto precisi nel riportarli: sono concerti, materia quasi musicale, e se tu parafrasi o non fai i giusti appoggi cade tutto. Poi, all’interno di quelle parole, trovo le mie emozioni e le mie visioni.

Visioni?

Quando recito ho sempre delle visioni. Per esempio, quando passo da un timbro vocale a un altro è come se visualizzassi le cose di cui parlo, provo a entrare nella materia di queste immagini che mi suggerisce il suono.

Che cosa ha visualizzato quando è diventata Blondi, e ha interpretato il cane di Hitler nel testo di Massimo Sgorbani?

Mi hanno guidato un’immagine e un’emozione elementare. Niente psicologia, perché il cane passa dall’esaltazione alla tristezza totale, non c’è un percorso emotivo, è tutto acceso-spento. Anche fisicamente: il cane fa una grande corsa, poi all’improvviso si arresta e dorme. Molto, molto difficile.

Non ha mai avuto voglia di scrivere, oltre che di recitare?

Tutti, Aldo (Nove, lo scrittore suo ex compagno, ndr) per primo, mi hanno sempre esortato a farlo. Ho anche condiviso un premio di drammaturgia per un testo dedicato a Sarah Kane. Ma sarebbero troppi impegni e mi sono detta che come interprete funziono meglio. Però, ce l’ho sempre lì l’idea.

Il Teatro i ha dovuto chiudere. Ma adesso che il pubblico sta tornando in sala non vorrebbe riaprire?

È vero che il pubblico sta tornando, ma il sistema è peggiorato. Soprattutto a livello ministeriale, dove ormai i criteri sono più che altro quantitativi e i piccoli sono penalizzati. Come in tutta la nostra società, che è sempre più performativa e colpisce i più fragili. Nel teatro italiano si è voluto un po’ rincorrere un sistema alla tedesca, dove ogni teatro grande deve avere la sua scuola, la sua compagnia… Così le tournée e le altre compagnie sono penalizzate. Aggiungendo che c’è una burocrazia pazzesca, costi di gestione degli spazi impossibili, adeguamenti alla sicurezza come fossimo una centrale Nasa, stipendi che in una città come Milano sono inevitabilmente inadeguati… tutto questo rende impossibile sopravvivere.

Non potrebbero essere d’aiuto gli sponsor?

Anche l’art bonus è complicato: è vero che in questo modo l’azienda che ti sostiene può detrarre quello che investe, ma gli sponsor cadono su chi ha i soldi, perché così sono più visibili.

Sperando allora che qualcosa cambi, lei adesso che progetti ha?

Il 29 maggio una lettura al Franco Parenti di Come d’aria, il libro di Ada D’Adamo candidato allo Strega. La prossima stagione, dopo I promessi sposi alla prova, torno al Piccolo con Fanny & Alexander e un mio progetto sulla Trilogia della città di K.