Gambaro: dieci incursioni nella maternità

Scrivere racconti in un contesto editoriale come quello italiano, che – si sa – tende a marginalizzare la forma breve, è ormai diventato un gesto (quasi) eroico; tanto che Niccolò Ammaniti, qualche anno fa, ironizzò sulla questione attraverso il titolo di una sua raccolta uscita presso Einaudi (Il momento è delicato, 2012). Non è il caso, qui, di (ri)avviare una riflessione (necessaria) sulla distinzione tra le possibilità conoscitive del pezzo breve e quelle della forma romanzo, ma, molto più modestamente, di segnalare un testo meritevole come le Dieci storie quasi vere con le quali l’esordiente Daniela Gambaro ha ottenuto la menzione speciale della Giuria alla XXXII edizione del Premio Italo Calvino, e ora pubblicato da Nutrimenti.

L’asse portante della raccolta è costituito dal motivo, variamente indagato, della maternità. La signora Avezzù interrompe la sua seconda gravidanza: occuparsi del primo figlio già le è costato l’allontanamento dalla vita professionale e dal giro degli amici. Un segreto che non è ancora riuscita a confessare al marito, e che trova il coraggio di rivelare solo al giovane giardiniere che le sta dissodando il giardino di casa. A questa maternità respinta fanno da contraltare i rimpianti per i figli che non ci sono più, che stavano per nascere o che non sono mai arrivati. Lucia ne ha già due, entrambi bellissimi, ma a causa dell’aneurisma che la colpisce i medici devono scegliere: o la vita della mamma o quella del bimbo che porta in grembo. E salvano la donna. A nulla servirà il raziocinio del marito («Magari il bambino ce la faceva, è vero, ma tolta te che saresti morta, e tolto me che mi sarei ammazzato, saremmo rimasti, anzi sarebbero rimasti in tre»). Poi c’è l’anonima madre che deve convivere con il trauma di avere dimenticato la figlia nel seggiolino della macchina, con conseguenze letali. O Anna, che un figlio non l’ha mai avuto e rischia di fare naufragare il rapporto col marito Sandro («Difficile ricordare il lato piacevole del sesso, quando per troppo tempo ci si era focalizzati sulla sua utilità»); una relazione che invece pare resistere per la protagonista di un altro racconto, confrontata con una depressione post-partum. L’autrice indaga anche altre forme di “maternità”, come quella tra un fratello e una sorella minore che magicamente si illumina, ma che poi, all’improvviso, perde quel dono grazie al quale era sempre al centro dell’attenzione; o il legame che nasce tra Rebecca e la ragazza alla pari Chérie, che si occupa del piccolo di casa ma sogna di unirsi alle Clarisse.

La maggiore qualità della raccolta mi pare risieda nell’iterazione di alcuni tratti, ma variamente declinati lungo il fluire dei singoli pezzi. L’indagine del nucleo famigliare, comune a tutti i racconti, è ad esempio mossa dalla pluralità delle voci narranti (e delle focalizzazioni), dalla presenza o dall’assenza di figure più laterali (i nonni), dalla scelta di assegnare o meno un nome ai personaggi. Nel complesso tutti gli elementi che (ossessivamente) collegano a geometrie variabili i racconti assumono significati diversi: la tartaruga (emblema dell’incomunicabilità tra moglie e marito, oppure simbolo della fatica della maternità, o ancora ricordo d’infanzia da cui ricostruire un’esistenza in frantumi); il campeggio (esperienza necessaria per elaborare una perdita, oppure correlativo oggettivo delle proprie idiosincrasie); l’acqua (di un canale lungo il quale vivere le prime esperienze adolescenziali, di un mare che sancisce una frattura forse insanabile tra madre e figlio, di una vasca da bagno in cui ritrovare l’intimità con il proprio marito mentre i figli dormono); la figura della babysitter; fino alle due occorrenze di un banale tappetino per la doccia, motivo di litigio o di incomprensioni.

Anche la sostanziale omogeneità nella lunghezza dei vari pezzi (cui fanno da cornice il primo e l’ultimo, più brevi, e i soli in cui sia presente la voce narrante di bambini) è in realtà vivacizzata dalla diversa durata delle singole vicende: un giorno, una serata (spesso però dilatati attraverso il recupero di eventi passati o il rapido sommario di quanto succederà in seguito), ma anche alcuni mesi o anni.

Tutti i racconti sono certo delle incursioni nella quotidianità dei personaggi, ma svolte attraverso sensibilità variamente modulate. Anzitutto perché si tratta spesso di realtà sfumate, sia dall’assenza di toponimi (gli unici presenti sono quasi sempre riferiti a città diverse rispetto a quelle in cui risiedono i protagonisti, quasi ad alludere alla loro precarietà), sia dalla scarsità degli oggetti evocati (in opposizione alla precisione della tassonomia botanica, su cui mi pare agisca l’Italo Calvino di Ultimo viene il corvo). Poi perché il trauma narrato è più o meno destabilizzante o più o meno superato dai personaggi che lo incontrano (spesso l’autrice preferisce indagarne le conseguenze). Infine, perché queste dieci storie risentono di modelli diversi, dalla fiaba al racconto di formazione, dalla cronaca al realismo magico.

Anche i titoli, bellissimi, pur trovando tutti una spiegazione esplicita all’interno dei testi, non si prestano a una lettura univoca: a volte chiaramente referenziali (La stanza in più è quella per un bambino mai nato); a volte determinati da un dettaglio nominato che assume tuttavia anche un significato metaforico (le Aderenze sono la causa dei dolori addominali di Chérie, ma alludono pure al suo legame con Rebecca); fino a quelli riferiti ai personaggi principali (Mia sorella si illumina) o a quelli secondari (Il signor Avezzù attraversa il racconto con la sua ingombrante assenza).

Infine, anche la sostanziale omogeneità del tessuto sintattico è increspata da lievi variazioni, determinate dai cambiamenti di atmosfera e di sguardo grazie ai quali Daniela Gambaro afferma la legittimità e l’onestà delle sue “dieci storie quasi vere”, non perché realmente accadute, ma in quanto intimamente vissute dall’autrice.