Gianni Minà dalla A alla Z (Meno la X di “pareggio”)

A pronunciarlo tutto di un fiato, Gianni Minà, è un canto di pistoni di una locomotiva. Tra i continenti correva, macinando servizi interviste documentari, sempre a velocità costante, senza decelerare il ritmo delle domande.

E da radio, televisione o carta stampata, per quella parte di Italia non così abituata a imbarchi e partenze, è stato sinonimo di nuovi mondi, alterità, fratellanza. L’unico libro che Cvetan Todorov avrebbe voluto scrivere: mai conquista, semmai incontro con l’America.

Da giornalista salgariano, con le sue avventure ha riscritto i confini geografici del conosciuto, sbaragliato i luoghi comuni e riempito di senso parole che andavano spegnendosi sui vocabolari dei colleghi che preferirono restare a casa. È stato così che Gianni Minà è diventato anche enciclopedia: un sapere diverso, pieno di colori rubati dai viaggi.

  • Tenere fede a una sola promessa: amore per il proprio lavoro, da non scambiare per interesse performativo o ipotesi di avanzamento di carriera, ma semplice passione per la narrazione, da continuare la sera a cena o dai telefoni delle redazioni con gli amici. Aspettando nuove storie e persone da raccontare, tenendo distanti e ben presente la differenza tra amore e sentimenti dal familismo amorale.
  • Di sorpresa il pubblico si accorse dell’operazione in corso nella televisione italiana: un Blitz. Con le armi di musica e sport, letteratura e cinema, la domenica pomeriggio si consegnava al mandato di sequestro della Rete 2. Tra dirette dal festival di Cannes e Gigi Proietti che interpretava il vinile dantesco di Vittorio Gassman, anteprime di C’era una volta in America e la passione per il Mediterraneo di Gregory Corso, Minà mostrò il Brasile poco conosciuto, alternando un gol di Falcao dall’Olimpico e una Bossa nova di Toquinho.
  • Cuba Castro Comandante Che. Quasi un endecasillabo alfieriano per descrivere l’idea e la sua realizzazione che per brevità chiameremo Comunismo. E questa controinformazione ai danni del capitale, ridicolizzato e messo agli angoli, gli costò non pochi nemici e cause vinte in tribunale. Un prezzo da pagare per sedici ore di intervista con l’uomo che sventò più attentati della Cia – Eduardo Galeano lo usó come refrain d’introduzione per ogni mondiale – che anni passare. E il documentario si fece libro, e da quello stesso incontro arrivò un reportage. La prima e l’ultima volta che Fidel raccontò del Che.
  • Ascoltando le canzoni di Bob Dylan e le testimonianze degli esuli sudamericani, capì che gli Stati Uniti erano anche espressione di un nuovo potere coloniale: “Presi coscienza, dolorosamente, che gli Usa erano i principali partner delle dittature a sud del Texas”. Fu così che in fuga dal regime, conobbe a Roma la banda di brasiliani Vinícius de Moraes, Toquinho, Chico Buarque, tra un bicchiere di vino e un accordo di chitarra. Per i mondiali in Argentina, chiese a Carlos Alberto Lacoste perché le madri di plaza de Mayo fossero così disperate e le autorità non lasciassero alcuna informazione sui loro figli scomparsi. Espulso e tornato in Italia, non dimenticò mai i desaparecidos, perché il mestiere del giornalista è soprattutto questo: mettere luce negli angoli bui e ascoltare le voci che le dittature vorrebbero dimenticare.
  • Metodo, sistema, analisi: l’empirismo è la linea di demarcazione. Gianni Minà allo studio televisivo ha sempre preferito l’esserci e il vivere nel mondo. L’altro giornalismo, quello che oggi stenta a sopravvivere, chiamato a sentire, toccare, parlare con le persone. La scrittura di eventi e luoghi al netto della freddezza delle agenzie di stampa e dei resoconti, un racconto non solo di cuore, ma completo di tutto il corpo: mani, piedi e baffi.
  • Dall’abbraccio con Luis Sepúlveda alla posa di rito con John John Kennedy e Aleida Guevara March – quasi una soluzione fuori tempo massimo della crisi di Cuba – ma anche con Tommie Smith e Pietro Mennea, Subcomandante Marcos, Sandro Pertini e Eduardo Galeano. Le fotografie con Gianni Minà sono l’album Panini che ognuno avrebbe voluto costruire per sé stesso. Una testimonianza del Novecento, ormai concluso, che dalle parole delle dichiarazioni si trasformava in immagine. Con poker d’assi e vittoria con lo scatto al ristorante Checco er Carrettiere.
  • A cinquecento anni dalla scoperta dell’America scrisse del Guatemala attraverso la vita di Rigoberta Menchú: contadina indigena maya e attivista, costretta all’esilio e premiata con il Nobel per la Pace. “Una sorta di risarcimento“, scriverà Minà, “verso quella parte di mondo che aveva regalato all’uomo europeo una civiltà e un’arte”. Un’altra occasione per sciogliere le trame di violenze e sparizioni, torture e povertà, con uno spazio riservata all’emergenza ecologica. “Gli indios guidarono la natura e non la deturparono come fa il mercato globale”. Una donna che diventa paese, continente, profezia.
  • Se la musica rock faceva volare, Gianni Minà all’isola Wight decollò. In elicottero. Così vide una parte del concerto nell’estate del 1970: dall’alto. Joni Mitchell, Miles Davis, Jethro Tull, Leonard Cohen, The Doors, Joan Baez e Jimi Hendrix. Dopo aver lasciato gorgheggiare voce e chitarra su If 6 Was 9 e The Star-Spangled Banner, il chitarrista si sentì male dietro il palco e fu soccorso da Minà con la sua auto. Peccato non fosse nei paraggi del Samarkand Hotel di Londra, due settimane più tardi.
  • Mai alla ricerca di rivelazioni, perché erano i personaggi a volersi svelare, senza costrizioni. L’intervista con Minà non è un incontro di boxe ma un lavoro ai fianchi di educazione e spazi, sorrisi e domande precise. “A Minà“, afferma Panatta “era impossibile dire di no”. Un colloquio che valeva come affidarsi ad un’ambasciata: tutti gli irregolari, i perdenti, i condannati dalla storia e dai media trovavano ascolto davanti alla sua telecamera, trovando casa per la loro controstoria: Diego Armando Maradona, Marco Pantani, Jack LaMotta e James Brown, lasciate che gli incompresi vengano a me.
  • Bossa nova e tropicalisti, rock e cantautori, ma il suo primo amore fu il jazz. Scoperto durante la notte, attraverso le frequenze delle radio, quel suono sapeva trasportare l’orecchio in una dimensione oltreoceano: viaggiare senza mezzi, con la curiosità, una passione che era già presagio di una vita futura. “Sentirne il soffio di notte era un piacere due volte illecito. Per le ore rubate al sonno, ore che ci sembravano già adulte, e per la carica di trasgressione che quella musica, anche soltanto accennata in un arrangiamento, portava con sé.” Occorreva solo aspettare qualche anno, perché il destino gli aveva già apparecchiato un appuntamento con Stan Kenton, Chet Baker e Dizzy Gillespie.
  • Per capire come sarebbe finito il match del secolo, gli bastò osservare George Foreman e il suo cane lupo a guinzaglio. A Kinshasa Muhammad Ali non aveva più credito e velocità di un tempo, eppure Minà lesse come un indizio di insicurezza per lo sfidante presentarsi alle operazioni di peso con un pastore tedesco (animale di riferimento degli oppressori belgi in Congo). Nella notte in cui diventammo re, dopo che Foreman andò a tappeto, solo la Abc e la Rai riuscirono a parlare con Ali. “Questa sera sul ring c’era Allah, solo Allah poteva vincere questo match“. Il resto è storia, o meglio: un film di Michael Mann.
  • Quando la televisione lo scartò, segnando in via definitiva la strada dell’intrattenimento senza spazio per la profondità, in direzione laterale, fondò e diresse la rivista trimestrale Latinoamerica: contattò Luís Sepúlveda, Paco Ignacio Taibo, Rigoberta Menchù, Eduardo Galeano, Frei Betto, Miguel Bonasso e prestigiosi intellettuali nordamericani come Noam Chomsky, Waine Smith o Joe Hamill perché scrivessero articoli sull’attualità. Risposero tutti di sì, accentando un pagamento con una bottiglia di grappa a testa.
  • Dall’amore allo sport, dall’arte alla politica. Il Messico per Minà è il portale di un nuovo mondo. Se le Olimpiadi di Città del Messico ‘68 si aprirono con il sangue del massacro di Tlatelolco, durante i giochi arrivano i pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos durante l’inno americano. Contro il razzismo e la prevaricazione nei confronti di qualsiasi minoranza. Ma Messico è anche l’intervista al muralista David Alfaro Siqueiros, la Coppa Rimet (’70) vinta da Pelé allo stadio Atzeca, il record di Pietro Mennea e il primo matrimonio con Georgina García Menocal. Più che paese, un moto di rivoluzione.
  • Antonio Ghirelli, suo direttore a Tuttosport, “non voleva pezzi asciutti, come si tende a chiedere adesso, ma pretendeva ‘sale sulla pasta’, il ‘condimento’ perché ogni articolo era un pretesto per allargare lo sguardo”. Da Maurizio Barendson imparò a girare un documentario e i nuovi linguaggi legati al cinema: in due napoletani fuori sede trovò i suoi due maestri. Grazie ai loro sguardi seppe intuire il rifiuto dell’oleografia in Massimo Troisi, Pino Daniele, James Senese, l’eternità di Eduardo De Filippo e l’eccezionalità degli anni maradoniani.
  • Debuttò a Roma nel ’60, da collaboratore per la Rai, ma seguì altre sei Olimpiadi durante la sua carriera, che insieme agli otto mondiali di calcio e decine di campionati di boxe costruiscono il suo eccezionale palmarès di presenze. Tokyo ’64 con Tuttosport, poi Città del Messico ’68 e nel ’76 a Montréal intervistò Alberto Juantorena, vincitore di due medaglie d’oro. Solo a Mosca gli segnarono un’assenza “perché, pur essendo inviato di punta del settore sportivo della Rai, quell’anno avevano deciso che dovevo passare la mano perché avevo già viaggiato troppo”. Un giro di stop da Monopoli, fargli saltare il turno come in una ripicca da gioco da tavolo.
  • Alla richiesta di un commento al suo microfono su Italia Danimarca all’Olimpico, rispose “Minà, io la vedo sempre, ma cosa vuole con quel turibolo?“. Così cominciò l’amicizia con Sandro Pertini. Un sentimento messo a dura prova da Paolo Guzzanti: lo chiamò una notte, imitando la voce del presidente: “Gianni, tu sai, nevèro, che io sto per partire per un lungo viaggio in America Latina, nevèro? Tu sei l’unico di cui mi fido perché conosci bene quei posti e vorrei che tu mi disegnassi con le tue mani delle mappe“. Senza scomporsi Minà non solo preparò le mappe ma si presentò il giorno dopo a pranzo, come richiesto, al Quirinale. Uno scherzo perfettamente riuscito.
  • Fu sempre per lui un motivo di vanto: “Sono amico personale di quattro presidenti: Morales, Castro, Chávez e Lula“. Una sinistra con cui amava intrattenere corrispondenza e pensieri, bilanci, opinioni e discussioni sul futuro. Ai Querido non si aggiunsero mai i vari Obama – che rifiutò l’intervista – Trump, Putin, Zelensky o Xi. Più direttori aziendali che presidenti, più votati all’azione che al pensiero. La politica si è esaurita con il ventesimo secolo.
  • Un brindisi a Barolo o Barbera tra uno scampato pericolo e l’altro, alla salute di Paolo Minà, padre di Gianni. Così trascorse la Resistenza, a Brusasco, ignaro degli eventi che solo anni dopo la madre Franca gli avrebbe raccontato. Tra pistole nascoste ai tedeschi, raccomandazioni di garanzia ai comandi del reich e sangue freddo, da funzionario della prefettura e iscritto al partito fascista, Paolo Minà diventò eroe per i ragazzi che combattevano in montagna e che aiutò a salvare. Senza averne l’aria e senza vantarsi, ma agendo a metà tra un Generale Della Rovere e Giorgio Perlasca.
  • Rossi, Tardelli, Altobelli “E non ci prendono più”: battere i tedeschi in finale non ha paragoni, questo Sandro Pertini lo sapeva bene. Con il premio di consolazione del gol Breitner, l’Italia vince i mondiali di Spagna ’82, contro qualsiasi previsione: solo Minà, Cucci e Arpino avevano sostenuto Bearzot e la sua Nazionale, contro ogni critica. Per questo all’indomani della partita, Speciale Mundial di Mixer è una giostra di ospiti e collegamenti: se i Rolling Stones si congratulano da Torino, in studio ci sono Monica Vitti e Ugo Tognazzi, Renzo Arbore e Eleonora Giorgi, Sergio Corbucci e Adolfo Celi, Carlo Lizzani e Paolo Villaggio, che riesce a dire la cosa più bella di tutte: “Io non ha mai fatto la Resistenza, né il boom industriale, né il Sessantotto. Ho perso sempre tutto: un impero coloniale, guerre e mondiali, la guerra di Spagna, la Libia subito. È la prima volta che vinco qualcosa da italiano”.
  • La distanza dalla guerra l’aveva calcolata in base al tabellino delle vittorie del Grande Torino. A ogni vittoria si allontanavano miserie, violenze e privazioni. Eppure continuò a tifare per il Torocon la rabbia di un pacifista” anche quando Superga spense la vittoria e ogni allegria. Fu nel sun pàsein, nel sentire insieme e vicino quella sconfitta, che lo avvicinò alla cura dei perdenti, al rispetto del dolore. Cosciente che la vita è un momento di divagazione e bellezza come Gigi Meroni, di rivalsa come Nestor Combin e di gioia come lo scudetto di Paolo Pulici.
  • Non ha mai smesso di continuare a credere nell’Utopia, non un’idea da lasciare senza forma né programma, alla mercé di politici e analisti. Minà immaginava un domani diverso con un progetto e uno pragmatismo degni dell’Uruguay di Pepe Mujica. Un paese che non si sarebbe solo accontentato di sopravvivere ma di disegnare un futuro, con giustizia sociale e culturale, sanità e rispetto garantiti a tutti.
  • Se Gianni Brera gli dimostrò che la collaborazione tra colleghi era possibile, Nereo Rocco gli insegnò che il catenaccio è dialettica valida anche per gli astemi. Raggiunto l’allenatore a Trieste per la registrazione del programma Un’ora con, Minà e Brera furono accolti dal miglior vino della zona. “Nel primo pomeriggio, si potevano contare già una decina di bottiglie, allineate sul tavolo. Avevamo finito all’imbrunire, quando le bottiglie vuote erano salite a venti, venticinque.” Minà scrive di non bere e non aver mai bevuto, anche se le immagini di repertorio di quell’incontro non testimoniano a suo favore.
  • A Giovanni Paolo II, quasi da scacchista, oppose Muhammad Ali. Durante l’incontro a cui Minà poté assistere, Wojtyla confidò che da appassionato di boxe “nelle notti dei grandi match era solito chiedere, al padre priore, la chiave del refettorio, per non perdere le sfide del campione”. Un abbraccio formale e un vertice di cui si parlò a lungo nei salotti romani, come tra due guide religiose: il papa conservatore e il campione di boxe musulmano.
  • Lettera indisponibile: non cercò mai il pareggio.
  • Che lo preferisse con i tratti di Philippe Leroy non ci è dato sapere, ma dei romanzi di Emilio Salgari ha sempre espresso parzialità per Yanez da Gomera, il corsaro portoghese: “per la sua aria sorniona e altruista, e sceglievo sempre quel soprannome nei nostri giochi di gruppo”. E interpretando Yanez, Minà ha vissuto prestando soccorso o essendo aiutato dai suoi Sandokan, a seconda dell’avventura: da Diego Maradona a Osvaldo Soriano, da Gabriel García Márquez a Muhammad Ali. Del resto l’esistenza è un romanzo da vivere per raccontarla.
  • Spensero le luci uscendo, Márquez passò per primo, lasciando che Minà gli guardasse le spalle, ancora per un po’. E conclusero l’ennesimo incontro con la storia che Gabo amava raccontare. Alla fine di ogni intervista con un giornalista italiano chiedeva sempre: “Che fa, torna in Italia adesso?“. “Sì, diretto a Roma“. “E mi saluti Zavattini allora“. “Ma Zavattini è morto“. “Zavattini, non muore mai“. Il primo a ridere era sempre Minà, chiudendo gli occhi, a Márquez toccava interpretare il ruolo fino alla fine. Come in un scherzo ben riuscito, un battere di ciglia, una primavera interrotta. Ci siamo distratti per un momento ed è tutto passato.