Glauco Mauri, 70 anni di personaggi, amori e incontri

La prima volta, quando Cordelia moriva, la portavo in braccio sul palcoscenico. La seconda volta, dieci anni dopo, la tenevo sulle spalle. Adesso… Beh, ho 90 anni, io entro e lei è lì vicino”.

Nel camerino tiene sempre quella foto che risale ad anni e anni fa. Sono Riccardo Vania e Tommaso Mirò, i due “nipoti”, figli di Roberto Sturno, con cui da anni Glauco Mauri divide il palcoscenico e non solo: Roberto abita sopra con la famiglia, Glauco vive sotto in solitudine.

Questa è la famiglia di Glauco Mauri. Fino ai 70 anni, in realtà, lui ha preferito vivere in albergo. Adesso ne ha compiuti 91. E continua a lavorare. La pandemia lo ha fermato mentre recitava Re Lear. Poi, dopo aver portato in scena l’anno scorso le Variazioni enigmatiche di Eric-Emmanuel Schmitt, ha ora ripreso le vesti regali di Lear, che nella sua lunga carriera ha indossato più di 500 volte.

Glauco Mauri in Re Lear (foto di Filippo Manzini)

Che cosa cambia nelle diverse età a fare Lear?

Dopo 70 anni che faccio teatro e nonostante cerchi di difendermi, c’è un’ombra che mi abitua alle cose. Oggi sono più vecchio, non più saggio né più bravo. Però più ricco di umanità. Fra i 70 e i 90, a ogni anno che passa il logorio è molto più forte, per fortuna ho il cervello che mi funziona. Ma per costruire un grande personaggio ho sempre bisogno di un’emozione.

Quale emozione?

L’emozione arriva sempre, le spiegazioni razionali no. Tempo fa, dopo Finale di partita di Beckett, due signore in camerino mi hanno aspettato per dirmi: “Non abbiamo proprio capito, ma si parlava della vita, e adesso ci sentiamo ricche dentro“. Questo è teatro. L’emozione di Lear è interpretare alla mia età un personaggio in cui uno dei colori più importanti è il sentimento della vecchiaia. Il mio terreno oggi è più fertile.

Con l’età non si diventa in genere più “sterili”?

Io ho sempre affrontato la vita con la voglia di sapere. Lear passa dal dolore alla follia, non ha compreso la semplicità con cui ci si deve accostare all’altro, in lui ci sono tutte le sfaccettature della difficoltà dell’uomo a comprendere la vita.

Chi può aiutare nel comprendere?

Io ho avuto storie d’amore, ma il sentimento più vitale per me è stata l’amicizia. E questi nipoti che mi adorano, che oggi hanno più di vent’anni, i figli di Roberto Sturno.

I suoi genitori chi erano?

Mamma faceva l’infermiera, andava in giro in bicicletta, aveva tre figli quando è morto mio padre. Non si è risposata. Il 10 giugno 1940, giorno della dichiarazione di guerra, io facevo la comunione e i miei fratelli sono partiti soldati.

Degli anni di guerra che ricordi ha?

Vivevamo a Pesaro, erano rimasti solo ragazzi e donne. Una volta è passata una squadra con un giovane partigiano che andavano a fucilare e – mi viene ancora la pelle d’oca – tutti si sono inginocchiati mentre passava. Vivevamo in un bunker e uscivamo la notte per prendere qualcosa negli orti, a rosicchiare dalle cassette abbandonate. Una volta, lì davanti avevano messo una bomba, l’ho presa e buttata. C’era anche un percorso attraverso un tunnel che arrivava fra le fascine, e lì – da un buco – passavo ore a guardare: non succedeva nulla, ogni tanto si vedeva una truppa tedesca, nient’altro. Però, una volta vidi un ragazzo che per sbaglio urtò un tedesco e questo gli sparò.

Com’era sua madre?

Con me parlava solo il dialetto, ma era una donna straordinaria, mi ha abituato a capire che cosa vuol dire la tenerezza: una cosa non svenevole ma solida, che ti avvolge e ti fa sentire protetto. Mi mandava a teatro e in seguito ho scelto di fare l’Accademia. I miei fratelli dicevano che ero pazzo, lei mi fece fare ciò che volevo.

Dove andava a teatro all’inizio?

All’opera, c’era sempre la coda per il loggione, ed erano cinque piani a piedi che facevo di corsa per tenere il posto a una vecchia signora. Poi scoprii la prosa. La prima volta fu Papà Lebonnard con Annibale Petrone: la sala era semivuota, la scena era triste, una cucina illuminata male… A un certo punto l’attore entra e si mette a recitare. E io penso: “Ma questo sta parlando a me“. Così, gli rispondevo anche. Avevo scoperto che il teatro era un essere umano che parlava a un altro essere umano.

Così il suo mondo cambiò.

Il teatro mi ha dato la meravigliosa responsabilità di poter raccontare favole, che sono servite a me e che servono agli altri. Vedere esseri umani che ridono e piangono e tu lì con loro è un’emozione diversa da quella che provi al cinema.

Però ha girato anche diversi film.

Ecce bombo di Moretti, La Cina è vicina di Bellocchio. E poi Profondo rosso con Dario Argento: che persona divertente!

A oltre 90 anni in scena: la memoria come funziona?

Come un muscolo, è allenamento. Certo, a volte l’auricolare ci dà il la. Ma tutti gli attori hanno più memoria dei loro coetanei che non recitano. E aiuta il fatto che ami quello che fai.

Che cos’è il futuro per lei?

Le sembra da pazzo alla mia età guardare al futuro? Non è facile, c’è il peso di tenere una compagnia, ma i progetti continuo a farli perché sento questa meravigliosa responsabilità di raccontare favole. A volte mi commuovo, anche alla centoventesima replica.

Ha fatto grandi incontri.

Strehler, Ronconi, Ionesco, Bergman… Ma il ricordo più bello è mia mamma: non mi aveva mai visto recitare, e quando feci I fratelli Karamazov venne a vedermi a Roma, dove non era mai stata. Alla fine, la vidi che non guardava me ma il pubblico che applaudiva, e quegli applausi la rendevano felice.

Gli applausi immagino facciano un grande effetto.

Dipende. Possono essere di cortesia, oppure come quando sentii una signora a Potenza che urlava “Grazie!” e capii che il teatro serve.

Serve anche all’autostima?

Quando salivo sul palco da ragazzo mi sentivo un altro, non più piccolino, grassoccio e con i dentoni. Ma dopo non si è trattato solo di una felicità egoistica.

Per anni lei ha vissuto in albergo: perché?

L’ho fatto fino a 70 anni. Poi Roberto (Sturno, con cui ha fondato le compagnia, ndr) si era comprato questa casa a 100 metri dal Colosseo. C’era un appartamento sotto il suo, così abbiamo fatto il mutuo. La prima volta che ho chiuso la porta mi sono detto: “Oddio sono solo, e se ho bisogno?“. Non avevo mai avuto un appartamento mio.

Non possedeva oggetti, libri, ricordi?

Ho sempre avuto alberghi che mi tenevano bauli di vestiti e scatole su scatole di libri, saranno 2.500. Il primo è stato a Milano, in piazza della Scala. Ho pensato che volevo andare a vivere lì e l’ho detto al direttore. “Ma è carissimo”, mi ha risposto. Allora gli ho spiegato che avevo una paga bassa, però mi basta stanzetta piccola. Me ne ha data una all’ultimo piano, e ci sono rimasto per quindici anni.

Ma perché non voleva una casa?

Non lo so, da ragazzo volevo sposarmi con una ragazza di cui sono ancora amico. Ma ho capito che la mia era una vita errabonda, non potevo stare accanto a una persona. Da quel momento non ho più pensato a legarmi.

Ha vissuto amori omosessuali, questo le ha creato problemi?

No. Sin da bambino ho ritenuto libertà e rispetto per gli altri fondamentali e ho avuto una grande fortuna.

Mi racconta qualche incontro speciale?

Ingrid Bergman: diceva che il teatro era la sua passione e che aveva visto un ragazzo che faceva Dostoevskij ed era bravissimo. Parlava di me. Memo Benassi, con cui lavoravo, ci fece avere un appuntamento alla Scala, dove lei provava. Era in camerino, con un bambino in braccio. Bellissima. Rossellini raccontava che lei gli aveva “fatto una capoccia” per incontrarmi. E lei mi disse: “Speriamo un giorno di recitare insieme”.

Ma non successe. Altri ricordi?

A Parigi, a cena con Ronconi e altri attori, mi chiamarono: “C’è uno che ti vuole conoscere“. Era un uomo molto anziano con il cappello. “Sei il primo attore che parla la tragedia”, mi disse. Era Louis Aragon. A Milano invece recitavo Il Rinoceronte e l’autore – Ionesco – veniva tutte le sere in teatro. Una volta mi chiese il libretto per controllare i tagli, tempo dopo scoprii che mi aveva fatto una dedica: “La mia riconoscenza profonda”.

È felice della sua vita?

Sì.

Ma perché veste sempre di nero?

Non è perché sono alla moda, ma, sa, il nero smagrisce.