C’è chi sceglie un evento pubblico, chi scrive un tweet, chi si espone alle telecamere, ma non Franco Maresco: al netto dell’istantaneità dell’emozione o del narcisismo mediatico, il regista sa bene che ricordare è un esercizio più difficile dell’automazione a cui la contemporaneità digitale ha obbligato.
Un atto di partecipazione dovuto, determinando con un sistema binario chi ha assolto al proprio compito e chi no, senza perdere tempo nella complessità dei caratteri, analisi e riferimenti. Ma la superficialità non appartiene allo sguardo di Maresco: decidendo di restituire l’infinito mondo di Letizia Battaglia, scarta qualsiasi semplificazione e sceglie di affidarsi alla narrazione del libro.
La mia Battaglia (2023, il Saggiatore, pagg. 192), trascrizione di interviste realizzate nel corso del tempo e della loro amicizia, è un mosaico affidato alle conversazioni per ricostruire il corpo attraverso cui la memoria di Palermo e della vera antimafia ha preso forma.
Se con i documentari La mafia non è più quella di una volta (2019), Gli uomini di questa città io non li conosco (2015) e Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz (2010), Maresco aveva già denunciato il mancato riconoscimento in vita e la dispersione del ricordo di palermitani che hanno lottato in solitudine e dimenticanza, a un anno dalla morte della fotografa, con La mia Battaglia, il regista rinuncia all’immagine per obbedire alla cura della memoria: riportare al centro parole e pensieri, speranze e delusioni, nero su carta.
Prima che il tempo e la semplificazione ne facciano un altro santino, prima che la persona si disperda nel monumento. E lasciare che siano le parole di Battaglia nel testo a sottolinearne la forza con ripetizioni, crescendo ed esplosioni di risate e rabbia, è un atto d’amore nei confronti dell’amica a cui si è voluto bene e dell’artista che non ha mai accettato ipocrisie né edulcorazioni.
E Battaglia con Maresco discute di tutto. Della sua stagione a L’ Ora come all’ospedale psichiatrico di Palermo, di Leonardo Sciascia e John Ford, dalla delusione per il femminismo – “Le donne sono come gli uomini, sono solo un po’diverse. No, il mondo lo dobbiamo salvare tutti insieme” – all’incrollabile fiducia nel sindaco Leoluca Orlando.
Se la fotografa si spazientisce o avverte stanchezza, Maresco con ironia e senso critico la spinge agli angoli per continuare il dialogo. “Tu fai come il bisturi, fai” lo rimprovera, sotto i colpi di citazioni di Guy Debord, Karl Kraus e Pier Paolo Pasolini.
Un esercizio dialettico inesauribile, da incontro di boxe, in cui si contrappongono anche due mondi di vivere l’identità siciliana, come dimostra il loro rapporto differente con Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: Maresco non cede all’entusiasmo delle novità quanto delle promesse e abbraccia il pessimismo con razionalità, Battaglia rifiuta categoricamente di abbandonare la speranza.
Come Coda di lupo s’innamora di tutto, ma a costo di subire la frustrazione, un entusiasmo vale la stagione di un’illusione. Letizia Battaglia si affida all’emozione, una parola che ricorre spesso nelle risposte e anche se è perfettamente cosciente dell’omologazione dello spazio cittadino, dell’assenza di senso critico – “Si loda qualsiasi cosa. ‘Oh, che bella foto!’. Si è diffusa un’ignoranza totale che impedisce di distinguere una buona fotografia. E la stessa ignoranza ha contagiato direttori e caporedattori dei giornali” – e dello snaturamento delle commemorazioni delle stragi – “Trovo che siano diventate di maniera, affidate a regie di quattro soldi. Non mi sembra che onoriamo più tutto quello che abbiamo patito. Mi sembra una messinscena” – non può arrendersi alla disperazione.
Dal trasferimento a Milano negli anni Settanta fino all’esperienza di deputata all’Assemblea regionale siciliana con La Rete e la creazione del Centro Internazionale di Fotografia, la vita della fotografa scorre tra domande e repliche, senza dimenticare l’orrore delle guerre di mafia e delle stragi.
E se l’arte di Battaglia si è sempre distinta per la ferocia della realtà e la mancanza di falsi pudori – dettaglio trascurato quando è stata oggetto di polemiche nel 2020 per la campagna Lamborghini – un posto importante occupano tutte le foto che ha deciso di non realizzare: i cadaveri di Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Perché il dolore e l’amore non dovrebbero mai soccombere al protagonismo dell’esserci. Il talento di Letizia Battaglia è anche in questo.
La mia Battaglia è un incontro tra due sguardi, che non finiscono di sorprendersi e arricchirsi a vicenda. Un dialogo che custodisce con cura la proiezione pubblica della fotografa senza lasciar contaminare la pagina e il lettore di dettagli personali, particolari ammiccanti che appartengono alle fiction.
Un confronto serrato, tra senso dell’umorismo e amarezza. Un esempio concreto di fare memoria, perdendosi tra le pagine, lontano dai cellulari.