Da dietro le grandi lenti tonde, uno sguardo vigile. Collega e analizza, disseziona e osserva, critica e spera, questo è il punto di vista panottico di Grazia Gotti sul mondo culturale italiano. Insegnante, scrittrice e co-fondatrice della Libreria per ragazzi Giannino Stoppani e dell’Accademia Drosselmeier, non ama far attendere i suoi giudizi, da sempre schietti e onesti.
Ma se lo sguardo universale di Michel Foucault poteva ricondursi all’etica del Sorvegliare e punire, quello di Grazia Gotti si riconosce più nel “sorvegliare e accudire”, nel prendersi cura del mondo delle parole e della letteratura.
Tra i suoi ultimi libri, Federico Fellini. Rimini-Roma, andata e ritorno (2020), una biografia per i più giovani del regista italiano pubblicata da Edizioni Primavera con le illustrazioni di Giuseppe Palumbo, è “una storia che vale la pena raccontare ai ragazzi” non solo per la straordinarietà della vita di uno dei maestri del cinema italiano, ma per riflettere sul mondo intellettuale e culturale dell’epoca e dalle nuove generazioni poco conosciuto.
La sua biografia di Federico Fellini è un viaggio a tappe, Rimini – Roma, come se fosse destinato all’esilio perenne, non riuscendo mai ad appartenere alla provincia o alla capitale. Pensa che questo sia il segreto dell’arte del regista?
Una forza determinante, ma non solo per Fellini. Ci sono tanti registi “esiliati” nella storia del cinema: basta pensare a tutti gli europei che per questioni razziali sono scappati negli Stati Uniti, da Vienna a Hollywood, nell’epoca d’oro. Poi c’è sempre un momento per gli autori, come Wim Wenders, il momento in cui diventano grandi, in cui necessariamente devono andare in America per fare un film. In fondo il regista è un personaggio che non si sente mai completamente “a casa”, Fellini più di tutti: ad Hollywood ci va ma solo per ritirare l’Oscar, e dopo il trasferimento a Roma pur sentendo la mancanza dei vitelloni, compagni d’infanzia, quando torna a Rimini con loro sa di non avere più niente in comune. È in perenne ricerca, legato al suo percorso, forse anche al suo sconforto. Un uomo non tormentato ma spinto, sospinto, da un’esplorazione senza sosta. Da una parte c’è il provincialismo ma dall’altra anche uno snobbismo provinciale, un sottolineare sempre da dove si viene.
Durante la cerimonia degli Oscar 1993, quando riceve il Premio alla carriera, Fellini afferma “Vengo da un paese e appartengo a una generazione per la quale l’America e il cinema erano quasi la stessa cosa, e ora essere qui con voi, miei cari americani, mi fa sentire a casa“. È il cinema la vera casa del regista, il posto in cui realtà e finzione non sono mai così ben delineati?
Esattamente. Trascorre la maggior parte del suo tempo non ad indagare la prosaicità della vita, come la progettazione di una casa – pur pensando fino all’ultimo di acquistarne una a Rimini – ma ad abitare più a lungo possibile il sogno, il mistero dell’esistenza. È stato sempre sospinto dall’incredibile potenza e fascinazione che il cinema ha come linguaggio, come possibilità di continuare a esplorare il magico e nel breve tempo concesso alle produzioni dei suoi film. A differenza degli scrittori che possono anche impiegare anni per terminare un romanzo, i registi sono condizionati dalle settimane di lavorazione, da un budget prestabilito. Anche se Fellini era celebre per non rispettare mai le consegne, rispetta la macchina cinematografica perché è il giocattolo con cui si diverte e ne conosce le regole, Fellini sa bene che un film è progettato per essere realizzato in un tempo determinato e inflessibile.
Come Fellini stesso dirà in un’intervista ad Eugenio Scalfari: la demolizione del set, al termine delle riprese, è “un’operazione distruttiva, mi dà una gioia indicibile, e me la vedo fino all’ultimo”. Una fine che presagisce un nuovo inizio.
La ricerca solo così può essere perenne. Il regista ha giocato, si è intrattenuto in un altro tempo, è diventato durante la lavorazione del set un vero e proprio esule dalla vita normale. E questo stato in Fellini è radicato fin dalla giovinezza, da molto tempo prima del suo debutto nel cinema, da quando si trasferisce a Roma per gli studi universitari e trasgredisce gli orari o i pasti: Fellini non è mai dove gli altri presumono che sia. È un eterno fuori posto, ti sorprende sempre. Recentemente ho pensato a due uomini in Italia, nati nello stesso anno, il 1889, in condizioni di miseria: Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli. Se il primo sopravvive vendendo le vettovaglie per conto del padre, il secondo è un orfano, cresciuto al Collegio dei Martinitt e da lì impara il mestiere di tipografo. Ecco, il rapporto tra Fellini e il suo produttore, Rizzoli, è un rapporto da indagare, proprio per la loro osmosi caratteriale: fuori dai margini della sinistra, capaci di gesti di creatività e umanità; sarà Angelo Rizzoli, seppur capitalista, a donare l’ospedale a Ischia. Due grandi italiani fuori posto, migliori e così lontani da quelli che quotidianamente celebriamo.
Da pedagoga e scrittrice, dà grande valore all’infanzia come laboratorio creativo, descrivendo nei particolari i lavori artigianali di Fellini, dal cuoio al legno per poi arrivare ai ritratti. È un’educazione che si è persa?
Certo, soprattutto nella scrittura. Lo posso constatare con la nuova generazione di scrittori, schiavi di un’intellettualizzazione che a volte non vuol dire e lasciare niente. Nel mio ambito di competenza specifica, la letteratura per ragazzi, alcuni autori non sanno più scrivere: al di là di un apprezzamento contenutistico, hanno smarrito dal punto di vista formale anche la grammatica e la consecutio temporum. Da insegnante elementare non riesco a trattenere il desiderio di tirare fuori la matita rossa e blu. Anche ragionando sulla forma e struttura della bibliografia in una pubblicazione, spero che cambino presto le regole. Tutt’altro discorso se si ripensa alla chiarezza delle annotazioni di Federico Fellini, al suo libro edito per Einaudi, Fare un film, estremamente comprensibile in ogni passaggio: Fellini sa scrivere e si fa capire, non si addentra in discorsi fumosi, una scrittura semplice.
Una scrittura che nasce anche dalla collaborazione con Ennio Flaiano, Tonino Guerra. Lo stile di Federico Fellini come autore è complice anche dell’osmosi del mondo intellettuale italiano dell’epoca?
Non solo, ma anche con Tullio Pinelli, uno sceneggiatore coltissimo. Un ragazzo di buona famiglia, che da liceale frequenta Cesare Pavese, Norberto Bobbio, Leone Ginzburg, ma che si appassiona presto al teatro, alle humanitas, alla cultura umanistica. Lo stesso Fellini dovrà fare i conti con questo scrittore precisissimo che gli pone problemi sulle storie. Allo stesso modo con la musica, Fellini si avvarrà della collaborazione di Nino Rota. Sono tutti ottimi artigiani che insieme si scambiano la loro quota di studi umani e negli ambiti di loro competenza riescono a realizzare opere di valore. Quello che al momento in Italia manca.
La sua biografia Federico Fellini. Rimini-Roma, andata e ritorno sembra di conseguenza anche un reportage da un mondo perduto, come se dovesse spiegare alle nuove generazioni il cinema dell’epoca, anche le riviste, illustrando il Marc’Aurelio.
Certamente, sottolineo questo aspetto soprattutto quando parlo di Tonino Guerra, un’altra faccia di Federico Fellini: nati a pochi chilometri uno dall’altro, quando il regista si reca in visita dai suoi parenti in campagna, Santarcangelo di Romagna è a una distanza minima. Sono praticamente coetanei, si conoscono da adulti, ma entrambi vengono da quel mondo. Parlare lo stesso dialetto è un codice che li tiene legati e che sarà fondamentale per il loro lavoro comune, come ad esempio la sceneggiatura e scrittura di Amarcord. Tonino Guerra preferirà staccarsi presto da Roma per tornare a casa, soprattutto perché deve praticare la sua lingua dialettale: scrive in dialetto, studia i poeti dialettali e allo stesso tempo è capace di lavorare con un regista russo, Andrej Tarkovskij. Sa far convivere in se stesso il “qui” e il “lontano”. Anche per questo ho avuto l’impressione, scrivendo il libro, di raccontare ai ragazzi un mondo che non c’è più. La nostra identità nazionale è molto debole, smarrito il dialetto, stiamo assistendo anche alla perdita della conoscenza geografica del nostro paese.
Un disorientamento che va dalla classe politica fino a quella culturale.
Anche il nostro attuale ministro della cultura – non più così giovane come le nuove leve del panorama politico – quando ha affrontato il progetto sul Colosseo, è apparsa come una persona che non ha i riferimenti con la storia culturale italiana. Lo stesso per gli intellettuali: ripensando a personalità come Umberto Eco, non erano costretti nelle loro torri d’avorio ma lavoravano con i mezzi di comunicazione, giornali, televisione, cinema, avevano tutti i mestieri del cinema. Soprattutto non erano vittime di questa chiusura sociale per cui chi vuole accedere, può solo se figlio d’arte o di vicinanza. C’è da lavorare tantissimo e da ricostruire un’intelaiatura, una rete di rapporti intellettuali.