Il memoir “immaginifico” di Werner Herzog

Per Werner Herzog la realtà non è mai stato il traguardo finale, magari punto di partenza, mezzo, ma non le ha garantito il punto di vista principale, l’unico termine di riferimento. Al suo racconto tocca pensare come ad un pendolo che oscilla in moto perpetuo tra il dubbio ed il sogno: meglio esplorare i confini – su carta e pellicola – quelle zone d’ombra in cui il mito si confonde con la storia, la coincidenza con il dato, la ricostruzione d’azzardo con la certezza.

Sarà per questo che il memoir, Ognuno per sé e Dio contro tutti (Feltrinelli, 2023, pp.366, traduzione di Nicoletta Giacon) non può ridursi a una canonica concatenazione di eventi e premi, film e incontri, privato e pubblico.

Non solo perché “non necessariamente tutti devono sapere tutto” e i film che ha girato, come i libri “sono sufficienti vie d’accesso, brecce nella mia fortezza, che già solo per questo è spalancata e indifesa”, ma anche per la perplessità che si fa sempre più spazio, nel regista tedesco come nel mondo contemporaneo: è necessario che sia reale o è più importante che sia verosimile?

E nel lungo piano sequenza, che per semplicità chiameremo autobiografia, non sono poche le intermittenze, gli sbalzi di tensione dalla verità: Herzog si concede numerosi strappi come “forse è frutto della mia immaginazione”, “questa parte della storia non mi pare veritiera” oppure “così almeno mi pare di ricordare”.

Un racconto tra realtà e immaginazione

Ma se il lettore più indulgente può essere indotto a una concessione di benevolenza per il tempo che passa – e superare gli ottant’anni non è poca cosa –  per i devoti spettatori della sua opera sarà facile rilevare l’artificio, la costruzione della meccanica creativa, il gioco illusorio che Werner Herzog ama: non importa che sia veramente andata così, basta che sia stato epico.

Così se soprattutto l’infanzia e la prima giovinezza diventano quel terreno in cui fantasia e realtà si confondono – come stesso il regista ammette: “Ancora oggi, provo una sensazione di sollievo nel vedere le mie origini avvolte in una leggera nebbia” – da subito Herzog costruisce la propria linea temporale come parallelo della storia nazionale tedesca nel secondo dopoguerra: nasce letteralmente dalle ceneri del Terzo Reich (1942), figlio di convinti, almeno del primo periodo, sostenitori del nazionalsocialismo, nipote degli Heinrich Schliemann che scavavano nel greco e latino per studiare le origini dell’Occidente.

Crescere senza “padri”

E se la prima maturità si contraddistingue per un nuovo senso di responsabilità, la crescita si differenzia per l’assenza di figure maschili: esattamente come la Germania dopo il ’45, una patria senza padri, Herzog diventa un giovane adulto nella totale anarchia in Bavaria, a Sachrang, un villaggio in cui “quasi tutti, come noi, erano senza padre. Abbiamo imparato tutto senza nessuna guida”.

Sarà come rispondere a un automatismo dedicarsi al cinema partendo dall’autoproduzione, così come aprirsi al viaggio, dal Perù a Creta, dalla fuga in Messico all’Australia, passando per lo zaino di Bruce Chatwin.

Nonno Rudolph come Fitzcarraldo

E non appena l’intransigente linea cronologica comincia a stargli stretta, Herzog allarga e dilata il tempo, concatenando paesaggi, film, persone. Un’ unica successione joyciana che gli permette di collegare anni lontanissimi, ma anche cime delle montagne ai vulcani in Guadalupa, il volo con gli sci a La grande estasi dell’intagliatore Steiner, documentario del 1974.

Se si presta attenzione anche il nonno Rudolph, attento archeologo e artefice di scoperte sull’isola di Kos, anticipa il Klaus Kinski di Fitzcarraldo (1982): un uomo che “dimostrò di saper guidare centinaia di operai turchi e greci”, del resto come il personaggio nel film, Herzog riconosce “mio nonno aveva una qualità che apprezzo in modo particolare: sapeva leggere i paesaggi”.

La discesa nel Paleolitico

Ma uno dei migliori esempi di questi portali tra passato e futuro è proprio il capitolo dedicato alla lavorazione del documentario Cave of Forgotten Dreams (2010).

Un racconto che parte dalla vetrina di una libreria di Monaco per arrivare anni dopo alla scrivania del ministro della cultura francese, Frédéric Mitterand, nipote dell’ex presidente: una passione nata da un libro su uno scaffale, dedicato alle pitture rupestri delle grotte di Lascaux, un dettaglio determinante che gli permetterà di essere uno dei pochi uomini al mondo ad entrare e filmare la grotta di Chauvet, la capsula del tempo incastonata nella roccia dove si custodisce uno dei più antichi siti preistorici del Paleolitico.

E se un bisonte sulla roccia viene raffigurato con otto zampe, quasi a suggerire lo scorrimento delle inquadrature cinematografiche, o la donna nuda abbracciata agli zoccoli di un bisonte, ricorda la serie di litografie Minotaure et Femme di Pablo Picasso, a Herzog, come al genere umano, è lecito interrogarsi: “Ci sono, dentro di noi, immagini che giacciono dormienti e che solo qualche stimolo esterno può risvegliare al loro crepuscolo?”.

Le ricorrenze del tempo

Ecco, probabilmente Ognuno per sé e Dio contro tutti è la risposta che il regista trova per sé: il memoir di Herzog è un plico sigillato in cui si sommano avvenimenti e vite che molto stesso l’hanno preceduto, e il cinema, come la scrittura, è un modo per riallinearli e farli viaggiare insieme, eliminando il tempo.

E viaggiando parallelamente tra il feldmaresciallo John Okello e Aguirre, furore di Dio (1974), dalla follia di Klaus Kinski in Perù alla distruzione sistematica della pensione in Elisabethstraße, Herzog dimostra che la vita è quel tessuto circolare, sempre pronto a slabbrarsi, da realtà a finzione, e viceversa. La possibilità di vivere come raccontare in maniera inclassificabile.