Il primo romanzo (senza Troisi) di Anna Pavignano

La prima figlia non è la prima figlia. Prima di lei ci sono due fratelli, adesso ragazzini. E c’è anche Amanda, bambina immaginata, con cui Poliana parla, di cui si figura occhi e capelli, che nella sua mente riveste con una gonna a palloncino e scarpette di vernice.

Anna Pavignano, autrice della Prima figlia, ha sempre voluto scrivere. All’inizio però, universitaria di Psicologia, ha incontrato Massimo Troisi e si sono innamorati.

L’amore l’ha portata a comporre con lui non romanzi ma sceneggiature. Storie in cui rientrava in parte anche la loro vita. Un esempio – ricorda lei oggi, in prossimità di quel 19 febbraio in cui il regista e attore napoletano avrebbe compiuto 70 anni – è una battuta di Ricomincio da tre, film d’esordio di Troisi. “Gaetano, interpretato da Massimo, dice a Marta: ‘Io non ci riesco, sono cresciuto con questa mentalità, l’onore, le corna, non me ne posso staccare’. Lo abbiamo messo nel film, ma era anche qualcosa di cui avevamo parlato e che sentiva molto”.

Massimo Troisi con Roberto Benigni

È solo dopo aver continuato a scrivere insieme anche se ormai si erano lasciati, e dopo la scomparsa improvvisa di lui – a soli 41 anni, nel 1994 – che la Pavignano ha cominciato a pubblicare romanzi.

Senza però mai smettere di lavorare per il cinema, firmando anche sceneggiature internazionali come La musica del silenzio con Antonio Banderas o Elsa e Fred con Shirley MacLaine e Christopher Plummer, entrambi i film diretti da Michael Radford (lo stesso regista del Postino).

E adesso è coautrice con Mario Martone di Laggiù qualcuno mi ama, documentario su Troisi presentato in questi giorni al Festival del cinema di Berlino che si concentra sui suoi film e sul suo talento di regista.

La prima figlia è invece l’ultimo romanzo dell’autrice. Il primo – Da domani mi alzo tardi, uscito nel 2007 – era stato in qualche modo ancora legato a Troisi: nell’invenzione, si immaginava che Massimo in realtà non fosse morto, ma solo sparito dalla circolazione per diversi anni.

Ritornava, ormai cinquantenne, e insieme si ritrovavano a scrivere un nuovo film, per ripercorrere le loro vite e i loro lavori. Storia di fiction, condita da molta verità. Staccarsi da un rapporto così intenso, d’altra parte, non è facile.

Non a caso, anche in un altro romanzo della Pavignano c’è dietro l’ombra di lui. La svedese, del 2017, nasce infatti da una sceneggiatura mancata: “Non stavamo già più insieme, però Massimo mi aveva chiesto di scrivere qualcosa sul modo di vivere i sentimenti e la passione al femminile. Si era accorto che c’era un che di imprendibile. Forse gli sarebbe piaciuto fare la regia di questa storia, di cui aveva letto il trattamento, da un racconto che io già avevo scritto. Racconta di una donna che si innamora di un uomo sposato, ma la sua educazione sentimentale la porta a mettersi da parte e a un certo punto si identifica con un’altra di cui è convinta lui sia innamorato e ne diventa quasi la stalker. L’idea era esplorare quanto questa capacità di annullarsi può portare a perderti. Massimo voleva capire la capacità delle donne di esagerare in amore, nel dolore e nella dedizione, questo mondo di sentimenti che gli appartenevano poco, visto che era capace di mettere confini molto netti alla sofferenza in amore”.

Una foto di scena di “Ricomincio da tre”, con Massimo Troisi.

Diverso è il caso della Prima figlia. Anna, come la protagonista del libro, due figli li ha davvero, due maschi di 33 e 26 anni. Non li ha fatti con Troisi ma con un marito venuto dopo, perché “Massimo aveva un certo timore delle responsabilità. È stato onesto nel non volersi prendere la responsabilità di un figlio che non voleva”.

Ed è proprio la responsabilità di un figlio quella intorno a cui ruota il romanzo. Che la scrittrice definisce storia sulla maternità raccontata in maniera un po’ immaginata per parlare del  senso della vita, dell’essere genitori.

Storia in cui la protagonista Poliana, ormai quarantenne e incinta per la terza volta, fa l’amniocentesi per verificare la salute del feto e, nella lunga attesa dei risultati, affronta dubbi, paure, scelte. Se il bambino non dovesse essere sano: che cosa farebbe?

La decisione, nonostante un marito affettuoso e presente, spetta solo a lei. A lei che, come quando era ragazza alle prese con una figlia immaginaria, adesso instaura un lungo dialogo con la sua pancia, dove è convinta si annidi una femmina, che già ha un nome: Cristina.

Poliana le parla, le spiega che sentiva il bisogno di avere una figlia “perché una figlia può essere giovane quando io sarò vecchia, divertirsi e innamorarsi per me e quando diventerà madre farà essere di nuovo un po’ mamma anche me”.

Ma soprattutto immagina – “se le permettessi di nascere” – una Cristina con sindrome di Down. Se la figura a scuola, a fare “il saggio di ginnastica artistica, lo scroscio di applausi più fragorosi per lei che è la più brava del gruppo”.

Vede la famiglia sfasciarsi a causa di questa nascita, “l’uomo che una volta era mio marito è diventato un estraneo”, gli altri figli non capiscono: perché i compagni dicono che la bambina è mongoloide? E “le piccole cose o i grandi obiettivi da cui lei è tagliata fuori?”. Un senso della vita che adesso è diventato combattere e andare avanti. Dare il meglio relativo”.

L’esito di questo interrogarsi angoscioso, ma anche liberatorio, non è fondamentale, non è dato sapere cosa sarà. Quello invece da cui non si può prescindere è il legame viscerale che si instaura fra la mamma e il feto, perché nel momento in cui Cristina è immaginata, allora vive.

Come nella citazione che apre il romanzo, dopo la dedica “Ai miei figli”: “Immaginare è in sostanza creare, gettare un ponte tra la materia e lo spirito”.