Il racconto del teatro di Scabia

Il 21 maggio è morto Giuliano Scabia – poeta,  drammaturgo, scrittore –, lo ricordiamo con due interviste di Paolo Di Stefano, questa è la prima, tratta da Idra, semestrale di letteratura (n. 6, 1993).

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Giuliano Scabia, tu hai avuto modo di partecipare giovanissimo alle riunioni del Gruppo 63, sia pure marginalmente: come sei approdato, dalla provincia veneta, a quell’esperienza e quali insegnamenti ne hai tratto?

«Bisogna premettere che arrivai a Milano nel ’60, dopo essere stato impegnato a Venezia nell’ambito studentesco. A Venezia ho stabilito i primi contatti con pittori, scrittori e uomini di teatro che venivano dalla Biennale. C’era una situazione politica effervescente, che mi ha subito affascinato. Ma soprattutto da Venezia, grazie alla Biennale, passavano le grandi personalità artistiche e culturali: lì ho incontrato, per esempio, Giacometti, Evtušenko, la compagnia del Berliner Ensemble. Conobbi Luigi Nono per un semplice caso. Avevo sentito il suo Canto sospeso alla radio e mi aveva colpito la pasta sonora, la ritmica, l’espansione della musica nello spazio. Una sera, nel ’61, mi trovavo sulle scale della Fenice, per assistere a un suo spettacolo, Intolleranza. Ma si preparava il caos, perché un gruppo di fascisti voleva boicottare lo spettacolo. Quando è uscito Nono, gli abbiamo gridato che l’avremmo difeso noi. Quella sera stessa, dopo lo spettacolo, siamo usciti a cena ed è nata una lunga amicizia che mi ha portato a preparare con lui l’esperimento della Fabbrica illuminata e Diario italiano, commissionato dalla Scala e poi proibito perché alcuni passi erano considerati troppo violenti. A casa di Luigi Nono passavano molti intellettuali: lui preparava da mangiare per tutti. Così ho avuto la fortuna di conoscere artisti, pittori, musicisti e scrittori anche dell’Europa dell’Est. A Milano sono arrivato nel ’60: insegnavo al Convitto Rinascita, una scuola a tempo pieno frequentata dai figli dei partigiani. Lì potevo fare teatro, si costruivano burattini, si facevano giochi, era una vera e propria comunità, in cui avevano insegnato per esempio Fortini e Musatti. A proposito dell’avanguardia, ho partecipato soprattutto alle riunioni di Reggio Emilia: con Costa e con Spatola eravamo parecchio amici e facevamo un po’ banda. Ricordo di aver letto un testo di poesia che suscitò un vespaio, fu violentemente attaccato. Ma era questo il modo di fare: ogni testo diventava un pretesto per la discussione, per teorizzazioni di ogni genere. Io ero abbastanza intimorito: mi impressionò soprattutto Sanguineti, che quando parlava sembrava Dante Alighieri. Sentivo che c’era la voglia e la capacità di guardare fuori dalla situazione italiana, ma sentivo anche che si vestivano abiti molto teorici. Mi sbalordiva, per esempio, la freddezza di Balestrini e mi pareva di trarne poco, a parte una lezione di rigore».

Ma in quegli anni, pur avendo cominciato dalla poesia, per quello letterario era uno dei tanti campi di interesse: c’era la musica, c’era il teatro…

«Io scrivevo poesie ed è proprio grazie alla poesia che ho fatto incontri molto importanti per me: conobbi, per esempio, Carlo Quartucci al Manzoni. Per due anni abbiamo parlato e parlato. Ricordo che lui montava Beckett a Roma e nel frattempo preparavamo un nuovo testo teatrale. Parlando con lui nacquero i miei primi testi teatrali, da lunghe chiacchierate per le vie di Genova e di Milano. Lui mi parlava del suo gruppo: era la compagnia più bella di quegli anni. Mi descriveva i suoi attori e io, sull’immagine che me ne facevo, costruivo mentalmente la commedia: ne venne fuori Zip. Tutto sommato, le persone che mi affascinavano di più lavoravano in campi diversi dalla scrittura: lavoravano nella musica e nella pittura. Mi interessavano in genere gli artisti che stavano sperimentando un passaggio nuovo nel modo di strutturare la musica, avviandosi verso una più diretta immersione nelle contraddizioni del reale. Ma ho anche collaborato con alcuni pittori astratti, come Vedova, anche se poi ho intrapreso strade opposte. Ricordo che c’era uno scambio fitto di linguaggi con alcuni giovani intorno alla Galleria Annunciata di Milano, anche in una profonda diversità: penso ad artisti come Spagnulo o come Ulivieri. Lì ho avuto l’occasione di incontrare Manzoni, Pestalozza, Nanni Valentini, Vago e persino Carrà, che da anziano era molto interessato ai lavori dei giovani. Come dicevo, il teatro mi si è disvelato all’improvviso come un momento di interrogazione più esteso sulla lingua. Passando dalla poesia al teatro ho scoperto, per esempio, il dialogo, che mi era assolutamente sconosciuto. Quindi è stata un’occasione per approfondire la sostanza della lingua e la parola, per allargare il mio vocabolario. È cominciato allora un viaggio che mi ha spesso travolto».

Fino a che punto nelle prime esperienze teatrali ha agito il desiderio di un impegno politico diretto?

«Diciamo che il richiamo del mondo per me è sempre stato molto forte, anche se a volte è finito in predicazione. Talvolta però si è identificato con la constatazione e l’osservazione di uno stato di crisi. Questo era l’aspetto che mi interessava e da cui è nato il Teatro nello spazio degli incontri: un teatro che alludeva sì alle contraddizioni della società, ma che non ignorava le neolingue in formazione. Era anche un tentativo di acchiappare il formarsi della nuova lingua italiana. Mi piaceva l’idea di andare incontro agli eventi. Adesso non ho più le idee così chiare. La poesia e il teatro mi sembrano come un’acqua purificata, un’acqua limpida di fronte al correre e alla tracotanza del nostro tempo. Mi pare che le armi dei cavalieri siano la gloria e la gentilezza interrogate e non esibite. Impegno per me oggi è cercare i miei sentieri e su quei sentieri fare degli incontri. Questa ricerca non serve per isolarsi, ma per costruire nuove cellule vitali».

Che cosa ha rappresentato per te l’esperimento teatrale organizzato nella periferia operaia torinese?

«È stato un trauma profondo. Venivo dalla proibizione, da parte della sinistra, di un testo teatrale che avevo scritto cercando proprio di far emergere le contraddizioni del ’68-’69: si intitolava Scontri generali. Sono arrivato nella periferia di Torino sulla base di una serie di idee che avevamo elaborato formando comunità in luoghi impervi, dominati cioè dalla logica del tempo industriale. Quell’esperienza ha significato commettere tantissimi errori, sbagliare in continuazione. Ho capito che bisognava immaginare ancora di più, giocare fantasticamente ancora di più di quel che avevo giocato. L’errore è venuto dalla eccessiva aderenza alla cronistoria, dal timore di giocare l’immaginario. Infatti, subito dopo ho cominciato a costruire draghi e uomini selvatici, ad andare in cerca dei boschi, quasi con la certezza che il richiamare le grandi immagini servisse a consolidare a purificare momentaneamente il presente, per rimettere la voglia di vivere anche all’inferno».

Tra i luoghi impervi ci fu anche l’ospedale psichiatrico di Trieste, l’incontro con Basaglia e la decisione di tentare un’esperienza di animazione con i matti, da cui nacque Marco Cavallo.

«Dopo il teatro degli scontri ho avuto la fortuna di buttarmi un po’ tutto dietro le spalle. Ho capito che si poteva mettere in moto qualcosa di armonioso, pur attraversando lo scontro con la realtà. Si poteva per così dire rilanciare il seme del desiderio, proiettando davanti a sé una grande immagine che avesse veramente forza e che fosse legata a dei vissuti: si poteva superare il momento distruttivo dello scontro. Allora, ho voluto andare nei luoghi in cui mi pareva fosse possibile costruire delle comunità di parlanti. A un certo punto, per me il teatro ha coinciso con il progetto di costruire delle comunità parlanti nei margini del mondo d’oggi. Ho cominciato dei viaggi d’esplorazione attraverso la gente, nei paesi, nei manicomi, a contatto con realtà che mi sconvolgevano anche fuori della letteratura. Si trattava di sperimentare in faccia il significato di certi nomi. Per questo è stato importante vedere in faccia i matti, viverci insieme e lavorare con loro. Tutte le idee che avevo con la follia mi si sono trasformate tra le mani. Ho visto tutt’altre persone rispetto a quelle che mi aveva trasmesso la letteratura. Questa intensità di rapporto mi ha portato a fare il teatro in maniera non soltanto formalistica, ma misurandomi con la realtà delle persone che si travestivano giocando momentaneamente una commedia da inventare insieme».

Come nacque dunque Marco Cavallo?

«Nacque da un incontro casuale in riva al Po, vicino a Colorno. Io lavoravo con una classe di ragazzi nelle loro famiglie, con burattini e preparando dei giornaletti. Un giorno l’assessore di Colorno ci invitò ad andare in una fattoria dove vivevano quattro malati curati da Basaglia, che era direttore provvisorio dell’ospedale locale. Tra il pubblico c’era anche Basaglia, che mi invitò a Trieste. Il tutto poi si realizzò due anni dopo. Io avevo paura del manicomio, ma accettai. Nacque l’idea di costruire qualcosa di molto grande usando la cartapesta. L’intero padiglione divenne un laboratorio: si prepararono un giornale murale, dei fogli volanti, un teatro vagante con un carrettino dove si tenevano tutti questi materiali. Si immaginava che il padiglione fosse il corpo e che il carrettino fosse un’arteria che distribuiva il sangue attraverso le membra del corpo. Ma rimaneva l’idea di costruire qualcosa di molto grande. In un primo momento pensai a una casa. Poi, un giorno vidi una signora che disegnava un cavallino chiuso da un’inferriata. Mi disse che era Marco Cavallo, un cavallino che era stato lì con loro e che portava la biancheria pulita. Ma, essendo troppo vecchio, i responsabili dell’ospedale l’avevano allontanato. Abbiamo deciso, allora, di costruire un enorme Marco Cavallo: un pretesto, perché tutti i matti venivano lì, durante la costruzione, a disegnare, a ballare, a cantare, a inscenare commedie, a recitare coi burattini. Tutto ciò che succedeva veniva raccontato sotto la pancia del cavallo e ne venne fuori un lungo poema, fatto di racconti e di un enorme repertorio di canzoni. Basaglia si divertiva con noi, era scatenato: aveva una grande capacità di scatenamento e di partecipazione».

In genere le tue esperienze teatrali o di animazione hanno avuto uno sbocco nei libri. Che rapporto c’è tra l’aspetto operativo e il libro?

«A volte ho pensato di partire da un progetto aperto, fare la cronaca e poi scriverne il racconto. Infatti considero Forse un drago nascerà, Marco Cavallo e Il Gorilla quadrumano dei romanzi di ricerca o, nell’ultimo caso, un romanzo di formazione e di informazione, scritto con un gruppo di diciotto giovani, sul fare cultura e conoscere la realtà italiana. Il libro, quando c’è stato, diventava un momento di precisazione, di definizione e di proiezione del modello realizzato. Se si vuole, è come una relazione scientifica, perché tutto quel che ho scritto in quei libri è verissimo, è vera la storia confrontata con le persone che hanno preso parte all’esperienza. Ma volevo che la temperatura linguistica e il ritmo interno fossero proiettivi, seminali, invitando a riprodursi. È quello che in alcuni casi è successo».

Negli anni successivi la tua attività si è frantumata: hai esercitato il cosiddetto teatro vagante lavorando con piccole comunità dell’Appennino, in Toscana, in Emilia Romagna eccetera. Come mai?

«Perché di certe grandi immagini ho preso paura. Mi hanno spaventato alcuni progetti troppo grossi che avevo messo in moto. Poi è venuto un tempo in cui molti discorsi sono come andati in cancrena, si sono ammalati. Sono stato costretto a ritrovare, con la maggior utilità possibile, il filo della voce. Era con questo filo di voce che andavo, dove si presentava l’occasione e dove ancora si presenta, per trovare in me e nelle persone che ascoltavano e mi raccontavano, la purezza della sorgente, la purezza della voce, scrostando quanto di ideologico c’era nell’aria. Ecco allora il significato del bosco, che è il bosco dell’anima, o degli animali, gli abitanti dell’anima. È stato questo il senso degli ultimi dieci anni: andare vicino a luoghi molto pubblici, ma molto segreti, capaci cioè di secernere qualcosa di limpido, di presente e di vero, pur attraversando la trasposizione mitica. Mi interessava questa verifica, quasi che il rapporto della poesia con la verità, anche nei suoi momenti più fantastici, potesse far sentire la voce al suo posto».

Tu insegni al Dams di Bologna. Che cosa rappresenta per te oggi il rapporto con gli studenti?

«Ha rappresentato una grande avventura di apprendimento reciproco: un giovane, come un bambino, è una fonte di indicazioni. Tu devi esserci e lui c’è: l’apprendimento avviene nell’esserci reciproco. Con alcuni di loro abbiamo intrapreso delle avventure dentro i testi e dentro la realtà. Quindi per me l’insegnamento è stato un grande viaggio di apprendimento. Oggi mi sto chiedendo se questo viaggio di apprendimento debba continuare nella forma degli ultimi cinque sei anni o se deve cambiare. A volte mi domando se non ho esaurito tutte le esperienze con loro, ma vedo che vengono ancora con domande che mi inquietano. Mi sento molto ignorante anche nel campo del teatro che insegno: avrei bisogno di dieci vite. Vorrei essere più regista, più attore, più pedagogo, ma mi mancano un po’ le forze. Stare con i giovani a fare o a leggere un testo è una delle cose più che esistano, un modo per decifrare la propria anima».

Nel’87 esce Teatro con bosco e animali, una favola archetipica. Fino a che punto ti sei servito del lavoro di ricerca folclorico?

«È stato uno dei luoghi interrogati, mi è servito incontrare sia nei libri che nella realtà feste, capifesta, musicanti, eccetera. Mi interessavano come portatori di poesia, portatori di lingue, portatori di forme metriche, ritmiche, drammaturgiche, di strutture estese nel tempo, portatori naturali di cicli nell’anno diversi dal mio e quindi capaci di mettere in crisi la mia concezione del tempo, narratori e narratrici. Questi incontri a poco a poco mi hanno dato qualche parola in più, qualche ritmo in più. Per il mio modo di raccontare, ho imparato molto da muratori che cantavano in ottava rima, da indossatori di maschere di legno, da narratori di favole, da danzatori di manfrine. Ho capito che la tradizione orale non si apprende per via libresca, ma per via corporea, come l’amore. Così la lingua si apprende gestualmente».

Una presenza centrale, che compare anche nell’ultimo racconto lungo, In capo al mondo, è quella dell’angelo. Che cos’è l’angelo?

«Vorrei saperlo anch’io…Viene dall’infanzia. Da bambini c’era sempre l’angelo custode. Poi c’è certamente la suggestione di Benjamin. La Commedia armoniosa del cielo e dell’inferno, che si chiude con l’Angelus Novus, è la prima commedia che ho recitato, alla radio, perché mancava un attore. Ho fatto proprio la parte dell’Angelus Novus: c’è anche una frase che viene da Benjamin. C’è comunque, nell’angelo, l’annuncio, il seme che butta fuori le foglie che sono le sue ali. Ho sempre sognato di essere un attore che vola; una volta ho sognato di volare fino a Eduardo De Filippo, ci incontravamo volando. Poi ho scoperto a poco a poco che l’angelo era l’arcangelo Michele, un angelo molto particolare, perché molto sapiente e preciso. Poi ci sono gli angeli greci ed etruschi, esseri con le ali che sono un desiderio. Ma in fin dei conti ognuno ha i suoi angeli».

In capo al mondo, dunque, non è la tua prima opera narrativa vera e propria?

«Direi di no, perché tutti i racconti dal teatro li considero opere narrative a tutti gli effetti, in cui ho voluto coinvolgere l’effetto montato secondo una successione narrativa. Diciamo, però, che erano delle prove verso un narrare autonomo».

In campo al mondo, un racconto di 70 – 80 pagine ha avuto un’elaborazione molto lunga. La vuoi raccontare?

«C’erano tanti pezzi di personaggi e di storia. E siccome era partita come un’interrogazione legata alla mente della città, Padova, in cui sono nato, era anche un’interrogazione su certe parole: mi interessava vedere come toccandole emergesse piano piano una configurazione e una conflagrazione di proporzioni e di presenze. Il tempo è stato necessario per trovare il ritmo della storia, il suo senso e il suo mistero, perché più andava avanti, più mi diventava misteriosa. Se dovessi dire esattamente che cosa dicono i personaggi nel finale, non saprei. Un giorno lo capirò. Abbandonarsi all’emergere ha richiesto un lavoro di molta limatura e di sottrazione continua. Ma ci sono stati anche eventi particolari. Un giorno ho avuto l’intuizione di far suonare il violoncellista a Crespino, in riva al Po. Sapevo che lì c’è Piazza Fetonte, perché me l’aveva detto una giovane donna. Un giorno, a Bologna, ho sentito che venivo preso dall’ansia di andare a Crespino. Allora ho noleggiato una macchina e sono arrivato all’imbrunire. Mi sono seduto nella piazza e mi ha colpito, della piazza, l’acustica. Ho preso degli appunti e ho descritto la chiesa, ho incontrato delle persone. A quel punto si è creata la cavità giusta per l’acustica della scena che volevo descrivere: volevo che dietro ci fosse la gaiezza, la gioia trobadorica del suonare, perché il violoncellista è lì come Bertrand de Ventadorn, che suona per l’essere, suona l’essere. Quelle pagine sono venute perché mi sono sentito portare a Crespino, da cui sono tornato di notte. Tra l’altro, il giorno dopo è fallita la Herz, l’agenzia presso cui avevo noleggiato la macchina. Non ero mai stato a Crespino, ma tutto è nato da quel soggiorno e dall’idea di Fetonte e del carro del sole che cadeva e finiva lì».

Il libro racconta di un viaggio da Pavia verso l’India. Perché hai scelto l’India come destinazione ideale dei tuoi personaggi?

«Io so che mio padre è stato in Oriente. Non ne ho mai parlato con lui, perché è morto prima che io potessi chiedergli certe cose. Ma l’India per me è un orizzonte particolare: la giungla, le belve, la mitologia infantile legata a Salgari. Io non ci sono mai stato. Del resto, perché Kafka in America? Il mito dell’America per me non è forte, non mi ha mai attirato, mentre l’India mi è sempre stata presente nel sogno. Ma soprattutto volevo rendere l’idea dello scappare di casa, l’idea del viaggio di conoscenza, l’idea di arrivare in un posto oltre il quale non si andrà mai, l’idea di superare una serie di prove, di avere dei protettori magici e degli antagonisti. È importante anche il possesso di uno strumento magico come il violoncello, che ti permette di oltrepassare le barriere e di incantare come una bacchetta magica».

Il racconto rivela anche un tuo particolare rapporto con il dialetto.

«Nei racconti Teatro con bosco e animali e In capo al mondo, come del resto nella mia vita, il dialetto mi permette di avere un rapporto con gli strati profondi della mia prima memoria. In particolare, nel libro In capo al mondo compaiono due donne che sono fate, nutrici della vita, sono delle erbère. Ecco, il dialetto che parlano è il loro succo simbolico».

Nane Oca, l’ultimo tuo romanzo, ha una struttura molto raffinata, con una cornice e una serie di racconti nel racconto. Ma vi si intravede anche il desiderio di costruire un intreccio forte, tant’è che la cornice è un vero e proprio giallo in cui si narra il misterioso assassino di Bianca Biròn, trovata morta in un giardino con la testa mozzata. Il racconto, insomma, è diventato un romanzo. Che problemi ha comportato questo passaggio?

«Il romanzo interno è il coro, il nido, in cui nasce il protagonista Giovanni, figlio di una fata e di un suonatore di viola pomposa. È questa la parte più profonda, il pozzo del romanzo, che è nato prima. Poi questa storia ha sentito l’esigenza di intornarsi, di circondarsi di un altro strato in cui apparissero delle figure più materne e paterne: da questa esigenza sono venuti fuori gli ascoltanti e i parlanti che raccontano la storia interna. La materia, tutto sommato, è sempre la stessa, ma sono due movimenti che geneticamente appartengono a tempi diversi che a poco a poco hanno cominciato a lavorare così fortemente tra loro finendo per intrecciarsi e integrarsi. Il lavoro di intreccio è stato faticoso come quando si intreccia la paglia per fare un cesto. Ho capito che poi quell’intreccio, che in un primo momento mi sembrava assurdo, era l’intreccio tra l’altro mondo e questo mondo, tra mondo magico e mondo reale. È questo l’argomento che mi ha sempre interessato, anche nei lavori teatrali: cioè, il tema della fantastica visione, il vedere dell’oltre, andare nell’oltre e parlare con le fate, che etimologicamente sono esseri che si dicono, che ci sono se tu li immagini.  È lo stesso tema dell’Ariosto e di Don Chisciotte. Comunque, per me la struttura del libro, l’intreccio è stata una sfida, perché richiede una mentalità matematica che io non possiedo».

Nel libro tornano alcuni Leitmotiv, alcune parole chiave che si rivelano fondamentali per cogliere il senso della storia: per esempio, Pesce Baùco, Acque Sguaratòne, Scarbonasso Serpente, il momòn. Che funzione hanno queste parole?

«In effetti sono partito da queste parole per costruire l’intreccio. Ma soprattutto da Nane, Giovanni, che è un nome – maschera con molte stratificazioni, un nome che cammina per molte generazioni attraverso racconti, bibbie, poemi. Momòn è una parola veneta nata come intercalare infantile e buffo, ma che estende illimitatamente il proprio significato, fino a diventare una specie di Graal, una parola universale e misteriosa, che ha in sé qualcosa di dolce e di malizioso. Quel che mi interessa è di svelare il mistero delle parole, scoprire cosa c’è dentro le parole e indagare, attraverso le parole, il mio rapporto con i morti, con il passato. Il teatro, per me, è stato un lungo viaggio di raccolta, di interrogazioni della lingua vivente, la lingua del mutamento. Nane Oca è la summa di questo lavoro archeologico, ma i materiali raccolti ho voluto proiettarli in avanti, senza nostalgia. Ho voluto imprimere una forza energetica a ogni parola, montare una struttura nuova e vivente. È esattamente l’opposto del tempo perduto: un orecchio alla terra e l’altro verso il cielo, un orecchio ascolta il passato, l’altro diventa una bocca che parla. Come le vongole, che succhiano e risputano in continuazione… Sul piano politico e etico mi interessa, guardando indietro, andare avanti con tutta la leggerezza e l’allegria dell’esperienza vissuta, reinventare continuamente la tradizione e il proprio passato attraverso la lingua. La lingua è sì madre lingua, ma è anche padre lingua. Io ho avuto la metà delle parole da mia madre, l’altra metà da mio padre e le altre me lo sono inventate…»

Nane Oca racconta di dolcissimi amori, di innocenti e maliziosi incontri di corpi oltre che di anime. Si direbbe che il corpo sensuale della parola abbia un corrispettivo nella sensualità di molti personaggi.

«Preferisco utilizzare l’aggettivo afroditico per i miei personaggi. Del resto, anche Gesù era un amoroso: chissà quanti baci dava alle sue Maddalene! Il corpo dell’uomo, questo roseo corpo gioioso, è proprio bello: ad esso la tradizione poetica e narrativa ha dedicato molte opere. Basta pensare alle canzoni dei provenzali, a Aucassin et Nicolette… Corpi gioiosamente amorosi dell’aria e dei colori sono, per esempio, quelli del Beato Angelico. Io ho voluto raccontare la bellezza del primo amore, dell’innamorarsi che rinasce sempre. Del resto, anche le maschere per me non sono dèmoni, come riteneva Toschi, ma sono sacerdoti della gioiosa terra che si risveglia, sono persone che scendono nel sotto a svegliare i semi e che poi vengono su tutte fiorite. Mi sembra una sciocchezza pensare che Arlecchino sia un essere demoniaco: tutt’altro, è un portatore di feste, di primavere, uno che insegna a toccare le donne, a pizzicarle per farle ringalluzzire. Quanto al corpo afroditico della lingua: sì, credo che l’analogia tra corpo dei personaggi e contentezza erotica della scrittura sia fondamentale in Nane Oca».

Ma fino a che punto la corporeità della parola viene dalla tua familiarità con il parlato?

«La prima volta che ho letto in pubblico fu nel 1964. Lessi malissimo Zip e dopo quindici giorni di sofferenza cercai di recuperare il senso del testo. La prima lettura di un regista o di un autore è fondamentale, è un fatto sacro. Non a caso Molière si giocava tutti i suoi pezzi nelle prime letture. Mi sono detto che per essere narratore dovevo imparare a leggere, dovevo imparare a far vedere attraverso le parole. È importante che l’ascoltatore veda le immagini. Allora sono andato a sentire decine di narratori, mi sono servito di molte registrazioni e ho capito l’utilità della scaletta, dell’intreccio, dell’immagine. Direi che il mio maestro è un contadino di 92 anni, che è un raccontatore naturale, concreto, capace di usare i colori e i particolari. Per sette anni sono andato in giro come l’angelo nei boschi, nei paesi, dagli amici, nei teatri. Mentre nascevano i miei ultimi libri, ne facevo delle preletture. Mi è capitato di pensare che un libro fosse finito e di doverlo invece modificare dopo la lettura: nel raccontare è importante la metrica dello stare insieme, l’oralità. La voce deve riuscire a far emergere l’anima dei personaggi».

Che cosa intendi quando parli dell’anima dei personaggi?

«Significa che quando li interroghi ci trovi una profondità. Questo avviene quando un personaggio ha un corrispettivo nell’esperienza, un’anima, anche se poi il racconto lo muta. I personaggi di Nane Oca erano tutti dentro di me. È come fare un ritratto con il pennello: il quadro è riuscito solo se riproduce l’anima della persona ritratta. Così nel cinema: Godard faceva parlare gli attori di fronte alla telecamera e a un certo punto uscivano le loro anime. Il regista deve prima ascoltare l’anima dell’attore, farla emergere: solo dopo può mettergli la maschera del personaggio».

Nane Oca si può definire un libro teologico?

«Sì, c’è una religione nei miei personaggi, nel loro modo gaio di stare nella vita. E poi direi che Nane Oca è anche la ricerca di un assoluto. Anche per Lorenzo, il protagonista di In capo al mondo, c’era un assoluto, quando andava a suonare alle bestie della giungla. La giungla per lui era il Paradiso Terrestre. In effetti mi interessa il viaggio nel religioso, mi interessa come fatto del corpo. Sì, in fondo la scrittura è la possibilità di una fondazione, una proiezione allegra. L’allegria che ci fa dire: dai, che ci raccontiamo una storia».

Tu hai sperimentato diversi modi: dalla poesia al teatro degli scontri, al teatro vagante, alla narrativa. Hai seguito un tuo percorso molto personale rimanendo appartato rispetto al mondo intellettuale. Hai osservato, quasi dai margini, lo sviluppo dell’industria culturale degli ultimi tre decenni. Come giudichi l’attuale situazione?

«Se confronto la condizione attuale con quella, per esempio, degli anni Settanta, mi pare che mentre allora c’era uno scambio stretto e frequente, oggi è come se ci fossero molte solitudini. Quel che succede sul piano intellettuale è parallelo ai cambiamenti della società. È emerso un altro mondo, molto individualizzato, che ti soffoca. Lo stare in pubblico è concepito solo in termini di esibizionismo. Sento che si è perduta molta passione: un sentire che è stato irripetibile. C’era una passione: una passione magari deleteria perché ci impediva di osservare la realtà, ma era un momento stupendo, vibrante anche per me che non ero ancora al centro della mia vita. Se penso a Milano prima del ’68, mi vengono in mente i seminari tenuti di notte da Fortini, da Giudici, da Bellocchio. Si leggevano Lukàcs e Lenin: era un’atmosfera catacombale, ma sono esperienze che si fanno solo una volta in un secolo. Ci si riuniva persino per allestire un foglio che si chiamava Il Volantino con Vittorini, con Spinella, con Loi, che non era ancora noto come poeta. Cercavamo insieme il senso del vivere a Milano. Ricordo, per esempio, che Vittorini mi faceva l’impressione di un grande cavaliere che aveva molto a cuore quello che scrivevano gli altri, ancora di più di Calvino. Oggi, ho l’impressione che ci sia un correre eccessivo verso l’esteriorità e non ci si preoccupa della voce. Ma ogni età ha le sue storie e sarebbe sbagliato liquidare ogni cosa con disinvoltura. Se leggo Veronesi, per esempio, non posso negare che si tratta di uno scrittore con un occhio straordinario, di uno scrittore che vede, che osserva, la cui scrittura è molto aderente all’occhio. E anche uno scrittore come Lodoli sa andare a cavallo: da lui può venir fuori un’opera fantastica. Poi mi interessa Celati, che ha seguito un suo percorso di ricerca vera, di progressivo appassionamento alla verità. È uno che mi sollecita continuamente delle domande su paesaggi e su viaggi che anch’io conosco; mi colpisce la sua capacità fotografica, che però a volte avverto come un pericolo. Ma soprattutto mi educa a evitare gli orpelli, le fantasticherie, le bellezze. Per lui la Padania è quasi un lager e la fotografa con spietatezza. Insomma, mi pare che anche nel presente, con tutti i difetti provenienti dalla solitudine e dall’eccessiva esteriorità, si possano trovare segnali incoraggianti».