Imma Villa: Napoli, il teatro e l’incontro con José Saramago

Ѐ stata Ecuba, Fedra, Erodiade. Regina sui grandi e piccoli palchi della sua carriera, ma è rimasta per tutti questi anni Imma Villa. Attrice napoletana, con il cuore che ha continuato a battere nel centro storico, occhi e orecchi tesi alle urgenze che il contemporaneo, prossimo e lontano, continuava a suggerirle. Prima di rivederla in scena a febbraio al Teatro San Ferdinando con L’arte della commedia di Eduardo De Filippo –  regia e adattamento di Fausto Russo Alesi – ripercorriamo con lei le tappe del suo lungo tragitto artistico.

La Napoli degli anni Ottanta è una scena che si apre alle avanguardie, con nuovi autori e ricerca di nuovi linguaggi. Qual è il percorso che artisticamente l’ha formata?

Come ragazza di quel periodo, in direzione contraria rispetto ai miei coetanei, ero molto legata alla tradizione. Un momento particolare di formazione perché avevo cominciato a recitare nella compagnia di mio padre, insieme ad altri attori che avevano lavorato con Eduardo, come Gianni Crosio, ultimo Pulcinella di Napoli. La mia partenza è con le farse scarpettiane, i Felice Sciosciammocca. È stato l’incontro con Carlo Cerciello, negli anni novanta, che ha determinato l’inizio e la conoscenza del teatro di sperimentazione. Grazie a lui ho capito che non esisteva solo la tradizione, ma ci poteva essere tanto altro: Antonio Neiwiller, Enzo Moscato, Francesco Silvestri.

Tra questi, più Giuseppe Patroni Griffi e Peppe Lanzetta, quale pensa che incarni al meglio la prospettiva per l’osservazione sulla città?

Inevitabilmente Enzo Moscato, è anche l’autore che mi rappresenta di più come persona e cittadina napoletana. Dai suoi testi escono fuori, di prepotenza, i personaggi che faticano a vivere, che devono sudare per vedere, come direbbe Scannasurice, la luce, nonostante abitino nella città del sole, perché sempre confinati ai bassifondi. Ma c’è anche la Napoli di Annibale Ruccello, molto sofferente, amaramente crudele come i racconti di Anna Maria Ortese, completamente diversa rispetto alla rappresentazione da cartolina cui siamo abituati. Francesco Silvestri ha scritto drammaturgie bellissime e strazianti, custodendo una grande umanità. Per quanto abbia interpretato anche i testi di Patroni Griffi, per me conserva un punto di vista borghese, una prospettiva che mi è più estranea.

Qual è stato lo spettacolo che per lei ha rappresentato il cambio di corso?

«Quando ho conosciuto Carlo Cerciello con la sua associazione, Anonima Romanzi, lavorava su testi per la trasposizione teatrale, in quel momento si stava dedicando a A sudd di Paperone, tratto dai racconti di Peppe Lanzetta, Figli di un Bronx minore e Un Messico napoletano. In quel momento mi resi conto che poteva esserci un’altra drammaturgia. Era un cambiamento di visione anche per i luoghi scelti per mettere in scena lo spettacolo, lontano da quelli deputati: andammo a Officina 99 (centro sociale autogestito nel quartiere Poggioreale, ndr) – al teatro Marcovaldo di Castellamare di Stabia. Da lì il mio sguardo è cambiato per sempre: non esisteva più solo Scarpetta. E così decidemmo di aprire il Teatro Elicantropo.

Teatro in cui fece il suo ingresso José Saramago quando portaste in scena Il contagio, trasposizione del suo romanzo Cecità. Come nacque il progetto?

Lo incontrammo al Festival di Mantova, due anni prima che ricevesse il Premio Nobel per la letteratura. Carlo gli chiese il permesso di mettere in scena Cecità e lo scrittore fu felice di concederglielo. Iniziò questa fitta corrispondenza via fax con Lanzarote in cui Saramago non ha mai interferito nel processo di scrittura, ma monitorava tutto il lavoro a distanza. Quando fu completato il primo adattamento, che terminava con la prima metà del romanzo, Saramago disse a Carlo: “Mi piace molto, ma il tuo spettacolo deve necessariamente arrivare fino alla fine, fino al recupero della vista, ho bisogno che si doni la luce, di lasciare un messaggio di speranza: io sono comunista”. Non ci aspettavamo che venisse a Napoli, soprattutto dopo l’assegnazione del Nobel, ma recitammo in sua presenza. Un’emozione unica: avere José Saramago nel piccolo teatro di Vico Gerolomini. Lo spettacolo prevedeva che gli spettatori entrassero in sala guidati da una corda, come ciechi, e anche Saramago, con la sua figura imponente e altissima, fece il suo ingresso unendosi al pubblico, aggrappandosi come senza vista. Dopo la messinscena, commosso, Saramago abbracciò Carlo dicendogli: “Io ho solo scritto un romanzo, tu gli hai dato la vita”.

Un altro grande romanzo a cui ha preso parte per la trasposizione è La pelle di Curzio Malaparte, ma stavolta con la regia di Armando Pugliese, un maestro di coralità. 

Pugliese ci portava stralci del romanzo, man a mano che proseguiva il lavoro di adattamento. Provavamo ogni giorno al Centro Don Bosco, e ogni giorno non sapevamo cosa avremmo dovuto fare quello successivo. Rimodulava le scene, decideva e cambiava idea su quale attore avrebbe dovuto studiare con i musicisti l’intonazione vocalica adeguata. Il famoso work in progress. Con Armando abbiamo fatto molte cose belle: Delizie e misteri napoletani, musicato da Antonio Sinagra, Chantecler di Edmond Rostand. Per quest’ultimo fu una vera sorpresa per me parteciparvi: non mi aspettavo che Pugliese mi chiamasse, non mi sentivo all’altezza. Quando ebbi il testo, confidai a Carlo: uno spettacolo tutto in rima, non mi sento preparata. Anche perché io non ho avuto la fortuna di frequentare una scuola, ho imparato a recitare rubando dagli altri, sperimentando ruoli diversi.

Come per il film La guerra di Mario di Antonio Capuano, in cui interpreta una figura molto distante dai suoi parametri. 

Sì, c’è stata un’evoluzione: io che in partenza ero un’attrice viscerale, di pancia, con gli anni sto diventando più cervellotica, a tratti più fredda. Il mio era un piccolo ruolo per il film di Capuano, però ha segnato un ulteriore passaggio nel percorso di attrice. In teatro è accaduto con Quartett di Heiner Muller, una sfida che accettai nell’interpretare un personaggio completamente algido, lontanissimo da me. Studiare i caratteri e le interazioni tra i due protagonisti è stato come assistere ad uno scontro tra Russia e America, come tra due superpotenze.

Una superpotenza lo è diventata lei stessa: adesso recita sui palchi nazionali più importanti, ma conservando sempre un legame con l’Elicantropo. Come è cambiato il rapporto negli anni con il suo teatro?

Quando abbiamo aperto l’Elicantropo questo spazio ci è letteralmente scoppiato tra le mani: in principio avevamo bisogno solo di un posto dove poter provare, ma alla fine quel genio di Cerciello (ride) l’ha fatto diventare un avamposto, dando a me l’opportunità di formarmi. Se qualcosa l’ho imparata, è stato grazie all’Elicantropo. Perché occorreva saper fare tutto, in ogni campo: ho fatto il tecnico audio, il tecnico delle luci, mi sono unita agli scenografi per lavorare e capire come si costruisce una scenografia. E questa è diventata la regola anche per gli allievi della nostra scuola: un’infarinatura generale, mettersi a disposizione di tutti e imparare a saper fare tutto.

E con Napoli che affinità ha consolidato, adesso che le viene riconosciuta a livello nazionale una forza centripeta? 

In questo periodo lavoro quotidianamente con attori romani e pugliesi, ogni giorno mi ricordano la forza di Napoli, nello stesso momento in cui in altre città d’Italia si vive un momento di stanchezza, magari di stasi. Ora Napoli è fiorente e penso che sia soprattutto merito dei giovani, dei piccoli spazi teatrali. Dal mio punto di vista è in queste realtà che puoi crescere, formarti, rafforzare le tue spalle e le tue convinzioni, non solo sperimentare il teatro drammatico e comico. Mentre a Roma i piccoli spazi sono in via di estinzione, Napoli ne è piena, e così sta succedendo a Caserta, con il via dato dal Teatro Civico 14 di Roberto Solofria. Dovendo fare un calendario settimanale ho difficoltà per vedere tutto, ma cerco di assistere a quanti più appuntamenti è possibile, perché tra nuovi autori e nuovi attori, amo vedere i giovani in scena. Quando inizio ad avvertire un po’ di stanchezza, sono la mia fonte di forza.

In questo momento di eccessiva attenzione all’autonarrazione e al personale, non ha mai abbandonato i temi sociali e universali con autori come Thomas Bernhard e Bertolt Brecht.

Per me Thomas Bernhard, al pari di Bertolt Brecht, è un autore che andrebbe studiato nelle scuole. La mia fortuna è stata iniziare con Carlo all’Elicantropo un percorso di teatro politico, portando in scena Il presidente, La madre, Terrore e Miseria del Terzo Reich, con Roberto Andò sto continuando ad avere la possibilità di mettere in scena questi grandi autori, perché è un regista e scrittore che non si accontenta mai di proporre cose semplici. Ha aperto la stagione del Teatro Mercadante con un testo non immediatamente facile per il pubblico come Piazza degli Eroi di Thomas Bernhard, e non lo ringrazierò mai abbastanza per avermi dato l’opportunità di partecipare alla messinscena di un testo che non è solo il testamento teatrale dell’autore, ma anche una grande riflessione sul mondo contemporaneo.