In Albania sulle tracce di Omero

Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni”, ci dice Prospero. Ismail Kadaré potrebbe aggiungere che siamo fatti anche di racconti e di parole, volatili come il mondo onirico di Shakespeare. Non a caso, l’autore albanese – 87 anni e più volte evocato come possibile Nobel –  sul Palazzo dei sogni, in cui un potere kafkiano analizza le immagini che abitano le notti del suo popolo, ha costruito uno dei suoi romanzi più belli.

Il dossier O., i cui due protagonisti irlandesi studiosi dell’antichità sono ispirati a etnografi realmente esistiti negli anni Trenta, è arrivato da poco in Italia ma in realtà – prima pubblicato a puntate su un giornale e poi diventato romanzo – risale a una quarantina d’anni fa. Il piacere della sua lettura non è però fugace come quello dei sogni.

L’O. del titolo sta per Omero. Max e Willy intendono risolvere il mistero su cui si sono arrovellate generazioni di studiosi. Chi era veramente l’autore dell’Iliade e dell’Odissea? Un poeta? Un insieme di autori? Un nom de plume?

Nel loro viaggio di scoperta, Kadaré inserisce inserti umoristici, dalle descrizioni di una moglie smaniosa e annoiata peggio della Bovary alla stesura di informative spionistiche lunghe pagine di inutili digressioni.

Il cuore del romanzo, dove non mancano comunque suspense e sangue, è però la memoria. I protagonisti arrivano in Albania perché sono convinti che lì – fra le sue brume e le sue montagne – riusciranno a trovare risposta al dossier “omerico”. Là intendono trovare nei canti dei rapsodi che ancora vivono in quelle zone, e che si spostano per raggiungere matrimoni o funerali da accompagnare con le loro ballate e il suono del lahuta, strumento a una sola corda.

Max e Willy vanno ad ascoltarli, ne registrano i racconti con uno strumento diabolico, il magnetofono allora totalmente ignoto agli albanesi, e cercano di capire come il racconto orale da una parte cambi di momento in momento e dall’altra mantenga invece alcuni capisaldi narrativi, tali per cui l’epica errante, per esempio, riproduce storie e personaggi dell’Orestiade greca.

La memoria, quindi. Quella dei popoli e quella degli individui. Simile a una nuvola, come quelle che aleggiano sempre sui romanzi di Kadaré, che si tenta di catturare e che, però, sfugge. Come sfuggono i sogni, nonostante il Sovrano del Palazzo dei sogni pretenda di raccoglierli, catalogarli, trarne auspici, reclamando ricordi sempre più dettagliati ma impossibili.

Ma memoria era anche quella del Generale dell’armata morta, ufficiale italiano (il nostro Paese occupò l’Albania nel ’39, cacciandone il re) mandato a disseppellire i soldati uccisi durante la guerra per non abbandonarli all’oblio, dar loro un nome e una bara. Impresa titanica, costruita sul nulla, se si vuole parente alla lontana di Borges (il quale, tra l’altro, inserì anche Omero nel suo Aleph).

Ismail Kadaré, dal 1990, ha ottenuto asilo politico in Francia, dopo aver sperimentato la lunga dittatura di Hoxha. Nei suoi libri la vena politica non manca mai. Citando fra i tanti: Vita, avventure e morte di un attore, dove la storia d’amore si invischia di servizi segreti e polizia, L’occhio del tiranno, con la scelta sanguinaria di togliere la vista a ogni potenziale portatore di malocchio (o traditore), L’aquila in cui il titolo stesso evoca il simbolo a due teste del Paese.

Ma accanto alla lettura politica spesso a chiave, si ritrova il disegno di un’ambientazione sospesa, il racconto insieme nel tempo e fuori del tempo. Una visione che, da Omero, attraversa i secoli, i sultanati e le dittature. Che ha a che vedere con l’insensatezza eterna dell’agire e dell’essere. In questo aleggia il profumo di Kafka e di una scrittura mitteleuropea limitrofa all’Albania.

Con una tonalità più prossima agli incubi che ai sogni. Avvolta perennemente in un clima di freddo, pioggia, eterno inverno. Dove la nebbia avvolge le montagne su cui rapsodi eredi di Omero si inerpicano e affidano le loro ballate alla memoria che svanisce.