Fra i cinque libri finalisti della sessantunesima edizione del premio Campiello, l’ultima opera di Filippo Tuena è una visione che azzera i consueti concetti di tempo e di spazio.
Senza bisogno, come in Interstellar di Christopher Nolan, di comprendere le astruse conquiste della meccanica quantistica o di penetrare il distopico mistero dei wormholes e dei buchi neri, che secondo audaci sognatori sarebbero portali fra galassie o ere geologiche, In cerca di Pan ci fa compiere un viaggio su e giù per il Mare Nostrum orientale. Tra l’Adriatico e l’Egeo, isole e anfratti, grotte dei Ciclopi o baie spumeggianti che avrebbero cullato la neonata Afrodite e raccolto i canti di mille aedi, si parte alla ricerca di ciò che si è perduto o intravisto. Forse soltanto sognato.
C’è una nave a remi, una galea imponente o forse no, è uno yacht dallo scafo leggero e rapido, oppure un catamarano elegante o ancora un cabinato di lusso. Chi può dire con certezza su quale mezzo si salpa dal porto di Brindisi, direzione Grecia continentale o arcipelaghi che non si possono enumerare?
Amanti, buon vino e carmi
Un uomo, appena discosto dagli altri, cammina sul ponte. Ha avuto anni fecondi, ha frequentato ambienti che da piccolo, pur venendo da abbiente famiglia, non avrebbe sperato di conoscere.
Ripensa alla morbida giovinezza, a caccia di occasioni mondane allegre e a tratti frivole: amici dotti con cui gareggiare a suon di esametri, amanti sapide e golose di buon vino, datteri freschi e abbracci senza impegni.
Poi, su tutto, la vocazione, il daìmon che non dà tregua eppure consola. Scrivere e comporre e progettare nuovi carmi, tra una passeggiata oziosa ai Fori e un pomeriggio alle terme ad ascoltare i pettegolezzi di Properzio.
Era stato privilegiato, ne era conscio. Felice di essere al centro del mondo nel secolo veramente aureo, dell’opulenza e del lusso, non aveva nutrito velenose invidie ma al tempo stesso aveva amato tutti e nessuno: traeva piacere da buone conversazioni con il collega mantovano, tanto diverso per indole ma mai noioso, simposi in cui si beveva sempre un po’ troppo ma il giorno dopo non aveva impegni nel Foro, lui.
Aveva lasciato al fratello, presto mancato, l’ambizione della scena pubblica e il talento oratorio. A lui bastavano un papiro o una tavoletta di cera e lo stilo. Le idee, parecchie. L’immaginazione, scatenata. Versificare gli riusciva così facile che a volte aveva perso il senso della misura, il lavoro di lima sul testo spesso era trascurato.
Un amore impossibile
Eppure, chi meglio del suo genio aveva evocato, per esempio, il dolore di Leandro innamorato e sprofondato? Con calma, piano piano. Da flutti attraversato e adagiato fra onde alte. Sfigurato da scogli, abbracciato a sirene e a tridenti. Leandro caro incantato e perduto da una sacerdotessa bianche braccia. Trecce scomposte, come leonesse. E allora, stretti da divorare varcare guadare. Disperato Leandro, tutto pur di sfiorare il consacrato corpo. Erotica Ero, a me, me solo! ti devi consegnare.
Disorientato infine da notte senza stelle e da insolite procelle, da spente – orrore – facelle, si scioglie in acque pazze, acque atre e lievi. Di Ade la popolata corte ti attende, Leandro, lo sai. Un giorno, insomma, l’uomo silenzioso a prua aveva concepito quel giovane, sulla sponda opposta a quella dove la fanciulla amata lo attendeva ogni sera: il loro amore era impossibile e ostacolato da tutto, famiglie, aspettative esterne, perfino la natura. Un braccio di mare, pochi chilometri di Ellesponto ma correnti infide e impetuose, di notte più che mai, quando il buio rende opachi i sensi e la morte meglio ci inganna con le sue pericolose seduzioni.
La traversata dell’uomo-pesce
Un tuffo tra i flutti, nulla di nuovo per il ragazzo sconvolto da inedita passione che gli incendia cuore e lombi, che gli infonde rinnovata energia. Si sente forte e immortale, quasi, le Parche una favola lontana.
Esiste solo Ero, in un’altra città, oltre lo stretto: vicini ma troppo lontani. Leandro, in una sera più buia del consueto, guarda verso il cielo e le gonfie nubi dovrebbero dissuaderlo dal farsi uomo-pesce per approdare infine tra le braccia dell’aspirante sacerdotessa. Il nome di Ero stessa pare un infelice omen: un’allusione non voluta alla potenza venefica ma irresistibile dell’eros, che vince sempre e preda gli umani di illusioni di eternità.
Leandro è muscoloso, ha fiducia in sé come ogni adolescente, nuota con perizia ma la Natura, ricorda Leopardi, prevale nella sua divina indifferenza. Quando per un colpo di vento la fiamma tenuta accesa da Ero sulla sponda opposta di colpo si spegne, il favoloso ragazzo non si perde d’animo: bracciate più rapide, l’ansia che cresce, sono pochi chilometri, in fondo, cosa ci vuole? Nuotare nuotare e ancora nuotare: poi, consapevole dell’acqua nei polmoni e del cuore che cede, dolcemente abbandonarsi. Nuotare ancora, lentamente, verso gli abissi. Assecondarli. Scendere “nel gorgo muti”, come Pavese scrive. Muti e ciechi. Acqua ovunque. E così sia.
Un viaggio tra passato e presente
Quel racconto aveva sempre successo, calava il silenzio nelle afose notti estive a caput mundi quando gli amici chiedevano di ripeterlo e alle matrone si inumidivano gli occhi. Adesso, al crepuscolo, su questo legno diretto verso i Dardanelli che nei cortigiani anni aveva evocato in tante favole arcaiche, il poeta lo ripeteva ai compagni di viaggio.
Vuota di voci, tranne la sua, e di suoni, l’aria. Accesa di curiosità, come ieri, dopodomani o venti secoli addietro. Publio aveva il dono, possedeva il raro carisma. Parlava e spiegava, descriveva con un sussurro e poi esplodeva in commenti che sembravano stelle cadenti. Anche da bambino, a Sulmona, lo trattenevano nei vicoli e gli offrivano fichi maturi. Soltanto per sentirlo ridere e narrare, perché con lui la noia si fermava.
Ora, uomo maturo e stanco, sconvolto dalla punizione che lo relegava in un esilio selvatico a tempo indeterminato e senza aver davvero compreso cosa avesse provocato il fastidio del monarca, si aggrappava di nuovo ai miti per sopravvivere alla traversata. Donne e uomini dagli abiti curiosi erano saliti con lui sulla barca. Abiti strani, accenti mai uditi prima. Qualcuno teneva fra le mani un oggetto rigido e lucido, che pulsava e si illuminava in modo inspiegabile, di tanto in tanto. Lo fissavano e coi polpastrelli lo picchiavano ansiosi. Mah, Publio non capiva ma era poco importante. Del resto, si era creduto astuto e invece si era fidato di un politico megalomane ed egotico che in meno di due anni aveva accettato da quei vecchi tromboni del Senato mille titoli onorifici senza manco dissimulare imbarazzo.
“Ci aspettiamo che costeggiando l’isola di Paxos si finisca per solcare mari che conducano al tempo anteriore, a quello che precedeva il messaggio funebre, al tempo della presenza vitale di Pan”. Il narratore, che in modo impressionante ricorda il poeta del circolo di Messalla Corvino, è strano o tale viene giudicato: il suo stile però è ipnotico e gradevole la compagnia mentre circumnavigano l’Ellade.
Si sovrappongono e si intrecciano, tra i passeggeri e lo scorrere inane delle ore, passato e futuro, senza soluzione di continuità. L’uomo incurvato e malinconico pare un anonimo turista su una nave da crociera, eppure ha in viso la condanna e nel cuore la certezza di un non ritorno.
Come e fino a che punto potrà sopravvivere senza amici né famiglia nel regno dei Geti? Una donna snob e sfuggente ascolta racconti atavici e improbabili favole mentre è a mollo nella sua vasca idromassaggio, con la porta della cabina socchiusa. È una femmina bellissima e reale o essa stessa una visione, una creatura metamorfica?
Il mito del dio Pan
L’ombra di Pan si nasconde, quindi esplode in violente epifanie di luce. Tuena ci prende per mano e fin dalle prime pagine, con magistrale eleganza narrativa e volute ambiguità, ci guida sulla prua del naviglio misterioso diretto a Oriente.
L’orizzonte in cui il sole sorge e la creazione ha avuto inizio. Nelle religioni monoteistiche o in quelle ferine e ancora più antiche, nel paganesimo dove il culto di Artemide lunare, pietosa e vendicativa, vergine e lussuriosa, quando e con chi lei decide, si sovrappone agli onori resi a Pan, divinità silvestre a cui era stato dedicato, quasi tre millenni fa, un inno omerico.
A est del Mediterraneo si compie ogni genesi e i rapsodi intrecciano eterni miti, perché la memoria dell’età dell’Oro non sbiadisca. Ma è davvero esistito un tempo aureo e perfetto in cui le ninfe non invecchiano e, correndo, eludono infoiate creature zooantropomorfe che stuprano fanciulle boschive, oscurano Artemide-Selene con un corpo aberrante munito di corna e di piedi caprini, eppure sono patroni della danza e della musica, assemblano dal nulla raffinate siringhe e favoriscono il riposo meridiano?
Destinazione: non-luogo
Il culto di Pan, dal V secolo a.C. in avanti, si diffuse rapidamente dall’Attica nel resto della Grecia e poi in Sicilia. Nell’arte dei crateri di età classica, la figura di Pan mantiene un aspetto aggressivo e bestiale, ma dall’età alessandrina in poi la sua immagine si addolcisce.
Pan è sempre più associato all’arte e alla forza, potente eppure distruttiva, della creatività e dell’impossibilità di fare a meno della bellezza. Che sia canto (pericoloso e irrinunciabile fin dalla saga di Odisseo) o danza orgiastica o parola incisa nel mito. Del resto, come ricorda Vico nell’introduzione alla Scienza Nuova Seconda, il mito è il segno linguistico per eccellenza, che esprime o plasma e soprattutto interpreta una realtà. Tutti, dunque, ricorda Filippo Tuena con questo libro di segno fantastico e utopistico – nel senso etimologico del termine, poiché la nave di cui siamo noi stessi passeggeri inconsapevoli ci porta verso un non-luogo dove le divinità ci attendono, morte o vive che siano.
Una divinità mortale
E dobbiamo loro almeno gli onori del funus -, siamo condannati alla ricerca di Pan. Che rappresenta la Natura madre e matrigna in ogni sua declinazione, senza connotazioni manicheistiche. Pan è la sessualità sfrenata e non procreativa, è la somma degli istinti che, ammoniva Freud, dobbiamo tenere a bada per essere accettati nel contesto sociale; Pan è grezzo e incontrollabile ma è anche vita che pulsa e gonfia le vene ed è pnèuma (il fiato che occorre per dare vita ai suoni con il flauto che lo rappresenta), è l’estate che infuria e sottrae al mondo dei defunti. Dove tutto tace e il respiro è fermo.
Prima dello sprofondamento, bisogna celebrare Pan e fargli spazio, non sempre e non ovunque, in casa e nella mente. Pan va stanato e posseduto e poi fuggito, di nuovo. Pan, secondo Plutarco, è l’unica divinità del pantheon greco che morì: un decesso inevitabile e favorito dall’avanzare del cristianesimo nella cultura occidentale.
Pan è un fanciullino abbandonato alla nascita, come narrano alcune versioni del mito, un bimbo solo e privato della madre. È un dio esule e ramingo, creatura celeste e ctonia. Senza pace né saldo approdo. Come il poeta relegato a Tomi. Come i viaggiatori della barca-fantasma. Come ogni donna e uomo gettati, senza volerlo né chiederlo, “per l’alto mare aperto”.
Cum subit illius tristissima noctis imago.