Luc Besson: “Liberiamo gli artisti dal politically correct”

L’arte dovrebbe essere libera. Un pittore deve poter scegliere di realizzare un quadro grande quanto gli pare, uno scrittore di esprimere ciò che vuole senza censure, limiti. Penso che dovremmo scordarci del politicamente corretto e andare nella direzione opposta. Gli artisti devono essere “pazzi”, aprire porte, anche esagerare. Penso a Picasso, la prima volta che ha scomposto un volto, messo un naso al posto di un orecchio, in molti hanno reagito dicendo: ‘Ma questa roba cos’è? Non è arte’. Be’, si sbagliavano”.

Luc Besson, 64 anni, oltre trenta di carriera nel cinema come regista e sceneggiatore, lo scorso settembre ha presentato al festival del cinema di Venezia il suo nuovo film, Dogman, al cinema dal 12 ottobre.

Stesso titolo del film di Matteo Garrone del 2018 ma, a parte la grande partecipazione di cani nella storia, quasi nessun punto in comune.

Dogman di Besson si apre con Douglas, il protagonista interpretato da un meraviglioso Caleb Landry Jones, che viene fermato dalla polizia mentre è alla guida di un furgone, vestito da Marilyn Monroe.

Nel luogo dove viveva con una piccola tribù di cani c’è stato un massacro (Le ragioni le scoprirete nel caso guardando il film). Portato in carcere racconterà a una psicologa la sua storia.

A cominciare dal fatto che quando era solo un ragazzino il padre lo aveva costretto a vivere nella gabbia con i cani. Quindi, al colmo della rabbia, gli aveva sparato lasciandolo paralizzato.

Salvato dalle torture del padre, Douglas sarebbe cresciuto in case famiglia, scoperto l’amore per il teatro e i libri grazie a un’insegnante e, una volta adulto, trovato una maniera alternativa per provvedere a sé ai suoi cani (anche perché un lavoro normale gli viene ripetutamente negato) oltre ad esibirsi in un club di drag queen, interpretando en-travesti grandi cantanti e dive del cinema.

Caleb Landry Jones è mostruosamente bravo nel film.

“Concordo. Quando ci siamo incontrati la prima volta gli ho chiesto solo: ‘Ti piacciono i cani?’. Abbiamo lavorato al personaggio e al film per sei mesi. Sul set è rimasto nel personaggio tutto il tempo, in sedia a rotelle, con addosso il busto. È un ragazzo umile, dolcissimo. Prima di cominciare a girare l’ho sommerso di informazioni, richieste. E al momento di cominciare le riprese mi sono chiesto: ‘Ricorderà tutto quello di cui abbiamo parlato?’. Al primo ciak era già perfetto. L’ultima volta che ero rimasto impresso così tanto da un attore è stato con Gary Oldman in Léon. Hanno lo stesso tipo di talento”.

Ha detto che l’idea del film nasce da un articolo di giornale.

“Sì. Un padre aveva rinchiuso il figlio di cinque anni in una gabbia. Mi sono chiesto: ‘Chi può fare una cosa del genere? Da dove viene tutta questa violenza?’. E ho cercato di immaginare che cosa sarebbe potuto diventare quel ragazzino una volta cresciuto. La sofferenza ci rende peggiori o migliori? Nel caso di Douglas, nonostante il dolore enorme che lo accompagna da sempre, è rimasto un essere umano per bene. Capace di fare del bene anche agli altri».

Ma anche di essere estremamente violento quando si tratta di difendersi.

“La violenza è una risposta, una conseguenza della violenza subita, delle sopraffazioni, della miseria, della fame. Come gli animali, gli esseri umani aggrediscono per nutrirsi, sopravvivere”.

Una ventina di anni fa ha scritto la sceneggiatura di un film, Danny The Dog, poi diretto da Louis Leterrier, in cui un ragazzo viene “addestrato” fin da piccolo ad attaccare come un cane da guardia. C’è un qualche tipo di collegamento fra queste due storie?

“Da quando ho 17 anni mi sveglio ogni mattina alle 4 e mezzo e scrivo. Ho la grande fortuna di fare questo nella vita, scrivere di quello che mi pare. A volte ne vengono fuori cose buone, altre volte fanno schifo, ma non mi sono mai chiesto perché mi vengono in mente certe storie. Non sono uno che ama la vita di società, non mi capita di frequentare tante persone al ristorante, agli eventi, ma mi piace condividere le mie storie con gli altri”.

Il suo primo film è stato Le Dernier Combat, quando uscì aveva solo 24 anni.

“E fino a 16 non avevo mai avuto un televisore in casa. Un critico fece una recensione e citò tre altri film ai quali, secondo lui, mi ero ispirato. Andai a noleggiare le cassette perché non li avevo mai sentiti prima”.

Com’è stato lavorare a un film con così tanti cani?

“Se sei un marinaio, per quanto esperto tu possa essere, non sei in grado di prevedere come sarà esattamente il mare il giorno dopo. Lo stesso se lavori con 115 cani. Devi cercare di organizzare il set al meglio per far sì che si realizzi qualche miracolo”.

Ogni individuo del branco ha una sua personalità. Li avevi scritti così o ha adattato la storia al carattere di ciascuno di loro quando li ha visti in azione?

Entrambe le cose. Come dicevo è impossibile sapere in anticipo che cosa aspettarsi da un cane e non puoi dirgli: ‘Adesso fai questo’. Ogni mattina, Caleb e io trascorrevamo un’ora con tutto il branco, andavamo al parco e tornavamo coperti di fango. Alcuni erano più affettuosi di altri, qualcuno di loro si trovava più a suo agio con Caleb, altri con me… C’è un cagnolino nel film che ha sempre fame, mangia di continuo e la ragione è che era davvero così. Un’altro, il più gigante di tutti, è il cane di mia madre. Prima di girare il film sono andato a cercare i suoi fratelli e sorelle. Quando li ho portati sul set, tutti erano terrorizzati perché a vederli fanno paura. In realtà è una razza dolcissima. Il vero problema è stato filmarli in modo tale che dessero l’impressione di essere temibili”.

Il palcoscenico per Douglas è una vita di fuga dalla sofferenza. L’arte può renderci la vita più sostenibile?

“Ne sono assolutamente convinto. Senza arte siamo perduti. Oggi più che mai”.