Interviste a Pound: «Scrivete ciò che volete, tanto è inutile»

Nel secolo scorso le parole e i loro significati naufragarono. Mentre descrivevano ancora gli inabissamenti delle navi di Ulisse o Robinson, gli stessi termini finivano alla deriva. Heidegger lo percepì e in una raccolta di saggi e conferenze pubblicata nel 1959, Unterwegs zur Sprache, In cammino verso il linguaggio, indicò quanto stava avvenendo, anzi ciò che era accaduto. Scriveva: «Svincolato nella sua libertà, il linguaggio può curarsi solo di se stesso». Quell’antica forza semantica che tutto racchiuse nei propri segni, anche le leggi del Dio rivelato, ora «si dà cura che il nostro parlare, ascoltando il dire che non ha suono, corrisponda a quel che esso viene dicendo».

Chi se ne accorse (consciamente o no) oltre ad Heidegger? I nomi degli scrittori e dei poeti che reagirono alla catastrofe non sono molti. Di certo Joyce o Céline (che finì con il trasformare le frasi in rantoli), indubbiamente Ezra Pound. Sui relitti della parola scrisse l’ultima possibile poesia. Ungaretti chiamò una sua raccolta Allegria di naufragi; i film moltiplicarono il tema (e continuano in questo secolo, da quelli dedicati al Titanic ad Adrift del 2018), ma il problema è altro. Non si tratta di segnalare quello che i latini chiamavano “naufragium”, ma di accorgersi – etimologicamente –  che la “navis” (nave) del nostro dire è angosciata dal verbo “frangĕre” (rompere).

Pound, insomma, il solo. Non a caso l’inizio di A Draft XXX Cantos evoca un’imbarcazione che sta salpando, un calco dall’Odissea. Eccola nella traduzione di Mary de Rachewiltz:

«Poi scendemmo alla nave / E la cinghia tagliò il mare divo, / Drizzammo l’albero e le vele della nave negra, / A bordo portammo pecore e i corpi nostri / Carchi di lacrime».

Un’opera dantesca si dirà. Un testo sperimentale che va dalla Troia di Ulisse alla Mosca della Rivoluzione d’Ottobre. O, se si desidera, è il diario di una navigazione pericolosa, dove i versi scrutano l’orizzonte sperando di evitare gli scogli del verbo latino “frangĕre”, agognando un porto sicuro. Non spetta a chi scrive aggiungere altre ipotesi, ci basti notare che i Cantos sono poesia che cerca requie dopo un naufragio.

Chi era Ezra Pound? Perché fu rinchiuso in manicomio e perché l’accusa di fascista nasconde nella comunicazione contemporanea l’immagine del poeta? La risposta è possibile trovarla in un libro che reca la sua firma: È inutile che io parli (De Piante Editore, pp. 248, euro 20). La cura si deve a Luca Gallesi e in esso sono raccolti i testi di interviste e incontri italiani 1925-1972. Il titolo riprende le medesime parole di Pound, come ricorda nel saggio introduttivo lo stesso Gallesi: il 18 aprile 1958, il poeta «privato della personalità giuridica e affidato alla moglie Dorothy, viene liberato» e ritorna in Italia via nave. Il 9 luglio, quando giunge a Napoli, rivolgendosi ai giornalisti dice: «Scrivete ciò che volete, tanto è perfettamente inutile che io parli: le mie parole verrebbero riferite in maniera imprecisa».

Tra gli articoli raccolti da Gallesi – una documentazione che sino a oggi mancava, ricca di dichiarazioni dello stesso Pound – vi sono autori noti, tra i quali Indro Montanelli o Pier Paolo Pasolini, Giovanni Papini o Eugenio Montale. Non mancano critici o scrittori, come Enzo Siciliano o Romano Bilenchi; intellettuali tra cui si nota Camillo Pellizzi. Ma, come si suol dire, anche nomi del giornalismo degli anni Venti e Trenta del ‘900, ormai dimenticati, consentono delle scoperte negli articoli che narrano le visite a Rapallo o a Venezia al poeta, le sue dichiarazioni, le abitudini, altro.

Per soffermarci con qualche esempio, partendo dalla prima del luglio 1925 di Carlo Linati che appare sul Corriere della Sera, scopriamo che Pound vede in America «l’intrusione della censura nelle cose dello spirito» e la prevalenza di «una letteratura commerciale, sessuale, poliziesca e di magazine». Per questo «siamo infiammati da una nuova idea: suscitare un rinascimento americano in Europa». Nel marzo del ’29, sempre a Linati, questa volta per La Stampa, il poeta parla di un’edizione che sta preparando di Guido Cavalcanti. E di esso e della passione per il Dolce Stilnovo ne parla anche Adriano Grande nel 1932 in un articolo per Italia Letteraria.

I Cantos mai mancano e sono definiti da Linati «un grandioso poema in cento canti», mentre Enrico Roma nel gennaio 1931 vede nel disordine della casa di Pound i «tre grossi volumi, in edizione di gran lusso», che contengono i primi trenta. A Costantino Granella, nel maggio 1931, in un articolo per L’Italia confida che dopo la Commedia di Dante «non vi è più stato alcun libro che abbia compreso tutta la vita di tutta l’umanità». S’incontra il poeta nelle abitudini delle sue giornate, ne sono riportati i giudizi, a volte abiti e pose aiutano il ritratto.

Così, tra i mille riflessi di un discorso ininterrotto testimoniato da questo libro, si scopre che per Pound – lo dice a Gino Protti nell’aprile 1934 – l’Ulisse di Joyce «non è come molti credono, e voi italiani soprattutto, il tipo del romanzo dell’avvenire… esso chiude un’epoca». E Ubaldo degli Uberti, nel marzo 1940, coglie il basso continuo che cadenza le dichiarazioni del poeta: «Bisogna instaurare una nuova economia che uccida una volta per sempre quella che lui chiama ‘usurocrazia’». Guido Piovene per il Corriere della Sera nel marzo 1951 parla ormai del “caso” che lo riguarda: l’arresto, la reclusione a Pisa, il manicomio di Washington dove è rinchiuso. Descrive il triste luogo cominciando in tal modo. «È circondato da un grande parco, in cui passeggiano e lavorano i pazzi tranquilli (ma Ezra Pound non può uscire)». Sulla “follia” dell’autore dei Cantos ritorna in un articolo Domenico Porzio (per Oggi, aprile 1954) e certifica che «le sue opere vengono ristampate e rilette in tutto il mondo; nelle università americane si tengono letture…».

Giovanni Papini chiede la «grazia per un poeta» il 30 ottobre 1955 (Corriere della sera) e Montale sul Corriere d’Informazione del 18-19 novembre ribatte l’argomento: «Si può far grazia a un condannato, ma Pound non fu mai tale». Il futuro Nobel rammenta i loro incontri tra il ’25 e il ’35, lo definisce «uomo impulsivo e leale». Bruno Fonzi su Il Mondo nel maggio 1958 può finalmente salutare il suo ritorno a Rapallo: «Non è più matto e l’hanno liberato dal manicomio».

C’è da continuare sino a stancarsi. Ricordiamo soltanto che Camillo Pellizzi su Il Resto del Carlino, nel maggio 1958, precisa che non fu un collaborazionista tipico, di quel genere caro ai film gialli. Perché? Semplice: i «gerarchi fascisti sospettavano che Ezra Pound fosse una spia». Mara R. Boensch per Il Borghese, nel luglio del 1958, gli porta un rotocalco con un articolo che lo riguarda e che lo irrita. Si deve a Giorgio Bocca e il poeta afferma: «Ha inventato tutto». Poi parla della gabbia dove fu rinchiuso a Pisa, una prigione «speciale, di ferro spinato e mentre la costruivano mi misero ad aspettare nell’obitorio del campo». Nel gennaio 1959 attacca Bertrand Russell (ne dà notizia La Nazione), anzi si augura che le esplosioni nucleari continuino «finché non l’avranno eliminato». Pasolini lo intervista un’ora per la Rai (giugno 1968) e Montanelli lo incontra nell’aprile del 1971. Fu una cena silenziosa ma carica di emozioni e di sbirciate, di bisbigli. «Mi guardò coi suoi occhi pieni di cielo, ma in cui stavolta s’era acceso anche un barbaglio di umorismo (mi dicono infatti che ne ha molto, come tutti i personaggi veramente tragici. Solo i pagliacci ne sono sprovvisti)».

Nel 1972 Pound moriva. Il libro curato da Gallesi racconta altro ancora e vi farà scoprire un poeta. Un uomo che cercò qualcosa oltre il naufragio in cui abitiamo. O forse ha soltanto sognato di costruire, scrive nei Cantos, «la città di Dioce che ha terrazze color delle stelle».