Uscito due anni fa, La città dei vivi, di Nicola Lagioia è un bellissimo ibrido di cronaca e fiction che, tra l’altro, sta per diventare una serie Tv.
La storia che racconta è, purtroppo, assolutamente vera. L’assassinio, come si usa dire in questi casi, efferato di Luca Varani, allora 23 anni. Torturato, massacrato a colpi di coltello e martello in un appartamento a Roma nella primavera del 2016 da due giovani, Manuel Foffo (in seguito condannato a trent’anni di carcere) e Marco Prati, morto suicida in prigione mentre era in attesa del processo, l’anno successivo. Un omicidio senza nessun movente, senza un perché se non il fatto che i due assassini erano strafatti di coca.
Nicola Lagioia che, proprio nel 2017, aveva ricevuto l’offerta di dirigere il Salone del libro di Torino (“L’anno post scissione: Milano si era contrapposta al Lingotto con la sua fiera letteraria, Tempo di libri, e quasi tutti i grandi editori avevano optato per la capitale lombarda, ma non era andata benissimo”), fin dai primi giorni aveva seguito il caso per il settimanale Il Venerdì. Anche se, come ricorda nel libro, la sua prima reazione era stata rifiutare la proposta che gli era arrivata dalla redazione. Un no il suo che dura solo poche ore, perché quella vicenda, in realtà, lo aveva catturato subito: in quel delitto e, soprattutto in quei ragazzi, c’era qualcosa che gli suonava stranamente “familiare”.
Che cosa fosse, Lagioia lo racconta molte pagine dopo. Quando aveva 17 anni, in una fase particolarmente turbolenta della sua adolescenza, seguita alla separazione dei genitori, era arrivato molto vicino ad “ammazzare una ragazza che non conoscevo”. E nel giro di un anno aveva rischiato altre due volte di fare e farsi del male. La ragione, spiega, è che aveva cominciato a bere: “La sera mi sbronzavo. Bevevo e urlavo a squarciagola. Oppure bevevo e svenivo per strada”. (…) Una sera di giugno, durante una festa con amici, “dopo essermi bevuto tutto quello che avevo trovato nel frigo del padrone di casa, iniziai a delirare (…) Non so di cosa possa aver parlato. Ricordo molto bene, invece, quando iniziai a lanciare le bottiglie dal terrazzo”. Bottiglie che, per poco, non c’entrarono in pieno una ragazza che passava lì sotto.
Non solo. Luca Varani, eterosessuale e fidanzato, si prostituiva per soldi. Per quello si trovava in quell’appartamento con Manuel e Marco. E Lagioia molti anni fa, in un momento della vita in cui si era ritrovato completamente al verde, era arrivato molto vicino a fare lo stesso. Aveva messo annunci on line offrendosi sia come accompagnatore per signore che per uomini su un sito per omosessuali. Non arrivò, però, a farlo perché, “quando scadde il termine che mi ero imposto prima di iniziare la mia carriera da prostituto – una soluzione che immaginavo temporanea”, racconta, “aspettai ancora. Temporeggiavo. Non volevo degradarmi in quel modo. Pochi giorni dopo trovai un lavoro vero e non ci pensai mai più”.
Roma, espressione abusata ma passatemela, assume nel romanzo il ruolo di personaggio. Una città slabbrata, che nella prima inquadratura del libro, Lagioia mette a fuoco partendo dal monumento più turistico al mondo, il Colosseo. Luogo “infestato” di turisti, di finti gladiatori e di topi. Turisti che arrivano alla ricerca della “grande bellezza” e che “col naso per aria ad ammirare un angelo“, si ritrovano “faccia a terra. Inciampati in una busta di immondizia. In alto il marmo candido, per strada i topi. E i gabbiani mangiavano i topi”.
E proprio il sangue di un ratto che cola dal soffitto della biglietteria del Colosseo nella prima scena è una sorta di premonizione di quello che accadrà. Soltanto tre giorni dopo il fattaccio – ovvero l’emergenza topi al Colosseo che era finita sulle prime pagine dei quotidiani – Luca Varani venne ucciso.
Il libro prosegue con la ricostruzione del delitto e delle indagini. Descrivendo situazioni e personaggi. Manuel Foffo, per esempio, lo incontriamo qualche giorno dopo l’omicidio, al funerale dello zio con tutta la famiglia. È in macchina, ancora in stato confusionale, che confessa al padre il crimine: “Abbiamo ucciso una persona”. Come?, chiede il padre. “Credo a coltellate. E a colpi di martello”. Con chi? “Uno che si chiama Marco. L’avrò visto in vita mia un paio di volte”. Quando? “Non mi ricordo, due, quattro, cinque giorni fa”.
Quindi Lagioia introduce il secondo assassino. Marco Prato, a Roma, è “a suo modo, un personaggio pubblico”, un pr del mondo dei locali a Roma: “Posava gli occhi su di te e non capivi se era perché avevi destato il suo interesse o se ti aveva appena aggiunto alla lista delle persone con cui era inutile perdere altro tempo”.
Tra i vari aspetti insensati di questo delitto c’è il fatto che Manuel e Marco non erano amici, si conoscevano a stento e non avevano, passione per la cocaina a parte, niente in comune.
Marco è gay, Manuel (ufficialmente, almeno) no. Dopo essersi incontrati per caso a capodanno, si erano rivisti una prima volta con il fine unico di sniffare insieme. In quell’occasione, Marco fa un pompino a Manuel, il quale riprende la scena con il cellulare dell’ “amico”, salvo pentirsi appena svanito l’effetto della droga anche perché è terrorizzato all’idea che il video che possa essere diffuso. Un po’ perché lo teme, un po’ perché Marco sa come manipolarlo, si rivedono una seconda volta sempre per sniffare cocaina. È in questa occasione che finiscono per uccidere Luca Varani.
La città dei vivi è una cronaca impietosa di un omicidio tanto brutale quanto casuale. “Ai suoi accusatori”, racconta Lagioia, “Manuel sembrava chiedere di fare luce su ciò che era successo – spiegatemi voi cos’ho fatto, aiutatemi a capire”.
E illuminante è la conversazione che Lagioia ha con il colonnello Giuseppe Donnarumma del reparto operativo dei carabinieri a cui era stato affidato il caso. “Lo incontrai l’11 marzo Gli chiesi cosa pensava di Marco Prato e Manuel Foffo. ‘Si sono incontrati, – disse Donnarumma, – e questo è il problema’. I delitti di questo tipo in cui c’erano dei complici che si conoscevano da poco seguivano quasi tutti lo stesso canovaccio. Non tre, non cinque, non otto. Due, era il numero ricorrente. Un incubo e un succubo. Un manipolato e un manipolatore, anche se spesso i ruoli erano intercambiabili. Si trattava di individui che, presi da soli, difficilmente avrebbero commesso i delitti a causa dei quali si ritrovavano in galera senza che quasi se ne rendessero conto. Non avevamo a che fare con dei serial killer. In teoria, erano persone normali”.
Ma nel libro c’è anche spazio per un ritratto altrettanto impietoso del modo in cui funziona il giornalismo in Italia, troppa pancia e sensazionalismo, nessuna riflessione. E del tritacarne dei social media, dove tutto viene strumentalizzato per fomentare lo scontro. Lagioia ricorda, per esempio, come, su Twitter, parecchi “utilizzarono l’omicidio per attaccare Matteo Salvini e la Lega: non erano stati gli immigrati a uccidere Luca Varani, ma due ragazzi bianchi, ricchi, italianissimi, beneducati, figli di sedicenti famiglie perbene”. Senza contare il sensazionalismo della Tv.
Memorabile la decisione di Bruno Vespa di ospitare a Porta a Porta Valter Foffo, quattro giorni dopo il delitto, “e a soli due dalla confessione di suo figlio, con Manuel appena sbattuto, in galera e Luca Varani ancora non sepolto”.
Un ruolo importante ne La città dei vivi viene data anche alle famiglie: della vittima e dei colpevoli. Il particolare, i genitori di Manuel, incapaci di accettare l’evidenza. “Vera o falsa che fosse, incominciò a diffondersi la voce che la mamma di Manuel trascorse i mesi successivi all’arresto affacciata alla finestra, ferma ad aspettare che suo figlio tornasse. C’era stato un errore giudiziario. Un gigantesco abbaglio. Bisognava dare tempo agli inquirenti perché capissero ciò che lei, ascoltando il proprio cuore di madre, sapeva benissimo sin dall’inizio”, scrive Lagioia.
E il motivo, riflette l’autore è che il mondo in cui è stato possibile arrivare a un delitto come questo è un “luogo in cui le cose accadono per caso, per negazione, per viltà. O peggio ancora, forse, per incapacità. Il padre della vittima, Luca Varani, spesso si lamentava di non aver neppure ricevuto una lettera di scuse”, ha detto Lagioia, “E, secondo me, non è successo non per cattiveria, ma perché nessuno aveva avuto la forza di farlo”.