La breve vita estrema di Vittorio Bottego

Cheyenne dice alla vedova McBain che Armonica non è l’uomo giusto per lei, che lui avrebbe potuto esserlo. Monta a cavallo e guarda un mondo che finisce, cambia, ne nasce un altro. Muore dopo pochi metri, perché è lui il mondo che muore e non avrebbe senso stare in un altro. Fa tenerezza Cheyenne, un attimo, un solo attimo di inganno che copre un’esistenza crudele, truce: sul calcio del suo fucile non ci sarebbe lo spazio per le tacche di tutte le vite che ha interrotto. E nessuno è stato all’altezza di Sergio Leone per raccontare al cinema la frontiera, la confluenza dei mondi. E quasi nessuno può mettere la propria spalla alla pari di Gianfranco Calligarich per narrare l’epica, l’avventura, lo scempio dell’umanità che si offusca con una fine tragica che cancella il peccato e trasforma, per un istante, il protagonista crudele in eroe. Quelli come Vittorio Bottego sanno di avere un’unica chance per trovare un posto nella storia: incontrare un Omero. Valli a trovare, in Italia, poeti così. Sono rari, i pochi che ci stanno vivono negli occhi dei pochi che riescono ad arrivare alle loro epiche, nascoste, soffocate da mari di carta quasi sempre inutili. Come mettere in pari uno stagno e sua maestà l’Oceano.

Vittorio Bottego nacque a Parma, il 29 luglio 1860; morì a Daga Roba, in Etiopia, il 17 marzo 1897. Ed è incredibile la forza dell’avventura che sceglie spesso di albergare negli uomini di pianura, nei luoghi placidi, calmi, in cui nemmeno il terremoto attecchisce, che d’improvviso si animano di un demone infaticabile che li debba portare alla gloria e alla morte, in una incollatura irreversibile. Esploratore e ufficiale c’è scritto nella sua biografia, come tanti grandi campioni dello sport che indossano la divisa altrimenti non potrebbero dedicarsi al meglio alla loro disciplina. L’unica disciplina di Bottego era l’Africa, ci si allenò per 32 anni e la praticò solo per 5, campione del mondo di avventura, 92-97.  Gianfranco Calligarich: L’ultima estate in città, Posta prioritaria, Privati abissi, Principessa, La malinconia dei Crusich, Quattro uomini in fuga – per la letteratura; Città Violenta, Lo stato d’assedio, La polizia ha le mani legate – per il cinema; Storia di Anna, La casa rossa, Tre anni, Il colpo, Piccolo mondo antico, Ritratto di donna velata – per la televisione; è il colpo di fortuna di Vittorio Bottego. Una vita all’estremo (Bompiani), porta tutti quelli da pianura e da poltrona nell’ossessione dell’esploratore emiliano; gli capitò l’Africa, perché non avrebbe potuto esserci altro luogo al mondo, forse neppure nell’universo, che potesse incarnare l’esigenza di fondersi nella natura primordiale, di squagliarsi in essa. Unico destino possibile. La racconta come fosse un diario di guerra, l’Anabasi di Senofonte, un narratore interno, che è il segretario del presidente della Società Geografica: uno che al contrario di Bottego visse una lunga vita, muovendosi dalla sua scrivania al muro di cinta dell’edificio in cui aveva l’ufficio. Morì di sedentarietà: racconta senza indulgenza ogni risvolto, dal più gentile a quello più efferato, dell’avventura di Bottego; e tradisce il rimpianto – quale sia la vita degna di essere vissuta? Vale l’orizzontalità?

«Riguardo poi le nostre due vite per cinque anni opposte e parallele, diciamo che se l’esistenza è una luce più o meno lunga nell’eterno buio del tempo, la mia è stata quella di una lampada da tavolo di buona qualità capace di resistere accesa su una scrivania per un non disprezzabile numero di anni e, quella di Bottego, invece, ha avuto la breve e folgorante luce di un bengala lanciato verso la scura volta del cielo per poi spegnersi lasciandosi dietro una vagante ed evanescente scia di fumo. Per cui sarà seguendo quel che resta di quella scia prima che si dissolva del tutto nel buio del tempo che racconterò, soprattutto a me stesso ormai nullafacente, di Bottego e della sua breve e travolgente vita. Nella quale sarei stato una sorta di passeggero clandestino».

La fine dell’ottocento è l’inizio dell’avventura coloniale dell’Italia unita, impresa poco esaltante, disumana, ingloriosa, del Regno. Un’epoca e un’epopea in cui i buoni sono praticamente inesistenti. E buoni non sono certo gli invasori, ma neppure fra gli invasi alberga in misura alta il senso di umanità, che a loro volta sono invasori di qualcun altro in una matrioska infinita delle ingiustizie, delle sopraffazioni. Bottego non fa eccezione. A suo merito c’è la certezza di doverci lasciare la vita, di riavere indietro tutte le crudeltà date. Di pagare il prezzo giusto. Ha trovato ed esplorato il fiume Giuba e poi ha alzato la posta: ha trovato ed esplorato il fiume Omo. Divinità più che fiumi, che fino all’impresa di Bottego apparivano creature mitologiche. Ed è stato come scoprire la verità sull’universo, la vita. I segreti cadono, ma sono così enormi da imprigionare lo scopritore. Bottego raggiunge la fama mondiale con la prima esplorazione, e non ce la fa a restarsene in Italia, Delia Montenero potrebbe essere pure Venere, non può nulla contro il fascino dell’Africa, Batula la sua incarnazione Etiope. L’Omo è un dio selvaggio e il negus neghesti Menelik II è solo il suo vestale. Le guerre di conquista, le nazioni europee, le rotte commerciali: tutte sono comparse quando il mondo riesce ancora ad essere vastissimo, colmo di segreti, con le delizie intime completamente sconosciute. Esiste solo l’uomo e la sua ossessione divina per la scoperta. Bottego avrebbe sacrificato pure mille vite se le avesse avute, ci avrebbe abbandonato la propria madre sulla corrente del fiume pur di andare avanti. Calligarich non ci spiega il mal d’Africa, ci precipita nel burrone dell’ossessione: andando avanti sotto i cinquanta gradi, con i piedi nel ghiaccio, lasciandosi sbrindellare da lance, frecce, sbranando gazzelle, ippopotami e facendosi condurre sull’altare ancora intonso di un Dio che vuole il sangue, per mano di Menelik.