La distanza necessaria per mettere a fuoco il metodo Falcone

La giusta distanza è la sua distinzione. Spirito critico, metodo scientifico e centralità della ragione, così care, sia all’illuminismo francese che a Leonardo Sciascia.

In questo modo Marcelle Padovani, scrittrice e giornalista, negli anni, ha saputo mantenere il punto focale da osservatorio laico senza eccessi emotivi e restituire la narrazione del fenomeno mafioso: restando fedele alle fonti e mancando sempre di superficialità, senza scadere nella cronaca del banale, proprio perché lontana dalla procedura devota dei racconti italiani.

Un panorama che dalle stragi del 1992, seppur con l’intenzione bonaria del ricordo, ha sempre restituito un’immagine generica e poco approfondita dei personaggi più importanti di una stagione che ha sovvertito i piani e la conformazione della criminalità organizzata.

È nel tardo pomeriggio del 23 maggio 1992 che Marcelle Padovani, dopo aver trascorso l’intera giornata in campagna, riceve una telefonata da Walter Veltroni: “Mi faresti rapidamente un pezzo su Giovanni Falcone? Come, non sai niente?

Da quella passeggiata in Umbria e dalla strage di Capaci sono passati trent’anni, eppure Padovani, proprio perché giornalista attenta e leale al metodo scientifico, ha avvertito la necessità di tirare le somme, un bilancio scrupoloso sull’esperienza dell’antimafia e del metodo Falcone.

Da coautrice del libro Cose di cosa nostra (1991) con il magistrato palermitano – saggio che aveva reso accessibile al grande pubblico il funzionamento e la struttura verticistica della mafia e cercato di arginare l’isolamento di Falcone – alla scadenza e appuntamento di un anniversario importante, ritorna ad analizzare l’universo della criminalità organizzata, dei suoi protagonisti, avversari, metodi di conduzione delle indagini e soprattutto risultati, con Giovanni Falcone. Trent’anni dopo (Sperling & Kupfer, 187 pp.).

Dopo la pandemia, la guerra in Ucraina e la crisi economica, sottolinea Padovani, sembrerebbe marginale aprire un ulteriore capitolo sulle dinamiche della criminalità organizzata.

Al contrario la mafia è la sottotraccia – e la controstoria – che si nutre proprio dei momenti di massima criticità degli Stati nazionali, soprattutto quando si aprono degli spiragli per agevolazioni amministrative finanziarie, per trovare spazio per le sue infiltrazioni. E se “la mafia ha sempre una lunghezza di avanzo su di noi“, come ripeteva Falcone, è giusto alzare la guardia e approfondire l’analisi nel momento in cui appare più silente.

Con le testimonianze di cinque “discepoli” dei comandamenti falconiani – Francesco Lo Voi, attualmente procuratore capo a Roma; Giovanni Melillo, con la stessa funzione a Napoli; Michele Prestipino, procuratore aggiunto a Roma; Giovanni Salvi, procuratore generale presso la Corte di Cassazione; Armando Spataro, ex procuratore della Repubblica a Torino – Padovani restituisce l’esatta geometria del ricordo del magistrato palermitano, ma anche dell’attualità del suo metodo, del ruolo dell’Antimafia e di come sia cambiato il rapporto tra magistrati e media nell’ arco di questi anni.

Eludendo le celebrazioni, Padovani sottolinea i temi centrali del carattere e delle motivazioni che spinsero Giovanni Falcone nella lotta contro la mafia: oltre i suoi “andiamo avanti”, la scrittrice tratteggia il profilo di un carattere formato da monoideismo, un vero “siciliano” con i suoi silenzi che non lasciavano spazio a indiscrezioni con i giornalisti, capacità di andare oltre i gesti e la chiacchiera per capire il bilancio di ogni interrogatorio, formalismo e linguaggio, ma soprattutto un approccio non tragico alla morte e un illuminismo – come Sciascia – del siciliano colto.

E se l’imbarbarimento della discussione pubblica ha ormai assuefatto i più a una dialettica di violenza, Falcone perpetrava un’etica professionale che non si abbassava mai ai termini della vendetta. Un uomo Solo – con la S maiuscola – che non si è mai sentito vittima ma solo servitore di uno stato, pur conoscendone i limiti e le grandi mancanze.

E se il mestiere di magistrato negli anni è cambiato, sorpassando la fase da “burocrate di giustizia”, combattendo i predecessori, e tornando a una nuova struttura gerarchizzata, Padovani non risparmia le critiche alla nuova classe di professionisti che ama sentirsi protagonista e attore tramite i social, o che non ha dismesso in tutto i suoi abiti da “inquilino”, restia sempre a riconoscere le proprie responsabilità d’ufficio.

Come cambia la magistratura, cambia anche la mafia. Sempre più lontana dall’iconografia classica da Il Padrino di Francis Ford Coppola, la scrittrice ricorda che la violenza omicida deve essere sempre utilizzata il meno possibile, lasciando spazio a termini più redditizi per collaborazione silenziosa tra mafia e stato. Il mafioso ha messo in armadio la coppola per vestire abiti firmati, più adatti a medici e architetti.

È un lavoro prospettico degno di Filippo Brunelleschi Giovanni Falcone. Trent’anni dopo: solo restituendo l’esatta misura del passato e del presente – Padovani sfrutta l’aneddoto mai per pura decorazione ma sempre come termine funzionale, restituzione del pensiero del magistrato – è possibile tracciare la misura di un intervento efficace dello Stato per il futuro.

Occorre distanziarsi e sottolineare la divergenza tra l’immagine mediatica di Falcone e la realtà, per costituire una testimonianza che non sia semplice ricordo, ma anche restituzione integrale senza normalizzazione né esaltazione.