L’avventura picaresca di Jan Potocki

Nell’epoca in cui è ambientata questa storia, il Conte di Olavide non aveva ancora colonizzato alcuna parte della Sierra Morena e l’imponente catena montuosa che separa l’Andalusia dalla Mancia era abitata soltanto da briganti, da banditi e da gruppi di gitani che, secondo le leggende popolari, si nutrivano dei viaggiatori dopo averli assassinati. Da ciò deriva il noto proverbio spagnolo: I gitani della Sierra Morena sono golosi di carne umana.

Jan Potocki, autore del Manoscritto trovato a Saragozza, originale romanzo breve in francese da cui è tratto l’incipit suddetto, nacque da nobile famiglia nel 1761 nel castello polacco di Pikow.Iniziò gli studi nel suo Paese, per continuarli, dall’età di dodici anni, in Svizzera, a Losanna e a Ginevra, dove iniziò ad approfondire la scienza e le discipline linguistico-letterarie. Fu un periodo fondamentale per la sua formazione e per l’eclettica curiosità che sviluppò nei confronti di molteplici ambiti del sapere.

Rientrato in Polonia, intraprese la carriera militare, come prevedeva il suo stato sociale, ma presto la abbandonò per consacrarsi alle passioni che lo dominarono fino alla morte: i viaggi e la conoscenza.

Un ritratto di Jan Potocki

Ambiva a possedere una cultura enciclopedica ed era insaziabile, soprattutto nei confronti delle lingue, antiche e moderne. Al tempo stesso, il giovane conte venne contagiato dalle idee politiche liberali e progressiste diffuse fra alcuni nobili vicini alla corte, dove il monarca Stanislao Augusto era affiliato alla massoneria.

I viaggi tra Europa e Tunisia

Prima di contrarre matrimonio con la principessa Julia Lubomirska, Potocki decise di intraprendere una serie di viaggi nel sud Europa, finalizzati a coniugare i suoi interessi di storico e di etnologo.

Tra il 1778 e il 1780 visitò l’Italia, la Sicilia, Malta e Lampedusa, infine sbarcò a Tunisi, dove fu ospitato nel palazzo reale presso la Grande Moschea di Kairouan, città santa.

Dal nord Africa il conte si trasferì in Spagna, Paese da cui era profondamente attratto: la Spagna che Potocki frequentò e conobbe era vivace e pittoresca, attraversata da briganti e da zingari, contrabbandieri e mendicanti, ma anche prolifica di artisti e di poeti.

Si innamorò dell’Andalusia, che tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo diventò meta obbligata per i turisti conquistati dall’ideologia Romantica, soggiornò a Siviglia, a Granada e a Cordoba, percorse i sentieri della Sierra Morena e approfondì gli usi e i costumi dei gitani, come si evince da alcuni passaggi del Manoscritto.

Il secondo “Grand Tour”

Tra il 1781 e il 1784 iniziò un secondo periodo di viaggi, che comprendevano la Turchia, l’Egitto, la Grecia, l’Albania e il Montenegro. Fissò le proprie impressioni in numerose lettere spedite alla madre, epistole che in seguito riunì in un volume pubblicato in una manciata di esemplari nel 1788.

Del secondo Grand Tour conservò per l’intera esistenza un gusto estremo per l’esotismo e l’eccentricità, che lo portava spesso a vestirsi con abiti turchi acquistati sul posto insieme a molti oggetti preziosi.

Il matrimonio e le frequentazioni illuministe

Rientrato in patria, sposò Julia, colta e talentuosa soprattutto nella danza e nella musica. Ebbero due figli maschi, ma la moglie morì di tisi quando i bambini erano piccoli.

Potocki non tardò a delegare il loro accudimento alla suocera, per consacrarsi di nuovo a ciò che più gli stava a cuore: esplorare il mondo e aumentare l’onnivora brama di cultura.

A Parigi frequentò i circoli illuministi e gli enciclopedisti di chiara fama, fra cui Diderot e D’Alembert. Era affascinato nondimeno dall’occultismo: la cabala aveva parecchi seguaci nella capitale francese. Del resto, le storie gotiche di fantasmi, di apparizioni e di vampiri andavano di moda fra i lettori.

Dopo un breve passaggio in Olanda, nel 1788 tornò in Polonia, dove fu tra i primi a denunciare i pericoli del militarismo prussiano. Accusato di giacobinismo, si trovò coinvolto in diverse lotte politiche, il che non gli impedì di andare a caccia di avventure.

La seconda moglie e la missione in Cina

Nel 1799 si risposò con una cugina, Constance Potocka, da cui ebbe un unico figlio. Lavorava indefessamente e produceva a ritmo continuo opere di storiografia, etnologia, geografia e diari di viaggio.

Non era però soltanto un erudito instancabile e minuzioso, bensì un creativo, soprattutto nella stesura di opere teatrali. Il capolavoro rimane il Manoscritto trovato a Saragozza, straordinario racconto la cui prima parte fu pubblicata a San Pietroburgo nel 1804.

Una fine “romantica”

In Russia, l’esistenza di Jan subì un’ulteriore svolta: grazie alle sue conoscenze altolocate, lo zar Alessandro lo nominò capo di una Missione diretta in Cina con finalità politiche e scientifiche.

Tornato in Russia, Potocki rimase presso lo zar con incarichi prestigiosi, fino a che decise di ritirarsi a vita privata nel proprio Paese, a Uladowka, dove possedeva una piccola proprietà.

Negli ultimi anni di vita, attacchi di emicrania e febbri ricorrenti esacerbarono la malinconia dello scrittore e lo precipitarono in uno stato di acuta nevrastenia. Il 2 dicembre 1815, chiuso nella sua biblioteca e circondato dagli adorati volumi, Potocki si suicidò sparandosi in testa. Un’uscita di scena in un certo senso romantica e in contrasto con la visione illuminista che aveva plasmato la sua giovinezza.

Il libro per cui viene ricordato

L’opera dell’intellettuale polacco, caratterizzata da una struttura narrativa “a scatole cinesi” in cui la storia principale viene interrotta più volte da altre storie (a loro volta contenitori di brillanti digressioni) raccontate da personaggi secondari, non è riducibile a un unico genere: convivono in equilibrio il romanzo di formazione, quello di avventura, il picaresco e il fantastico.

Un ritrovamento casuale

Il tòpos del manoscritto per caso ritrovato non è di per sé originale ma occorrono geniali e sfacciati romanzieri per sfruttarlo abilmente e strizzare l’occhio al lettore, che sospende lo stupore e accoglie la magia: qui non abbiamo anonimi cronisti seicenteschi che raccolgono le disavventure di due contadini brianzoli, bensì un ufficiale dell’esercito napoleonico che in modo inatteso scopre nella capitale del regno di Aragona un manoscritto spagnolo interessante al punto da non potere evitare di divorarlo per poi decidere di tradurlo nella propria madrelingua, il francese.

Sessantasei giornate

La vicenda contenuta tra le righe inizia subito dopo il presunto ritrovamento del testo: nell’arco temporale di sessantasei giornate, Alfonso Van Worden, protagonista e narratore in prima persona, compie un viaggio attraverso le montagne della Sierra Morena, infestate – raccontano gli indigeni – dagli spiriti.

Il film tratto da “Manoscritto trovato a Saragozza” (1965)

Da lì, è tutto un susseguirsi di avventure e di colpi di scena in cui Alfonso è testimone della scomparsa, uno dopo l’altro, del suo mulattiere e del fedele domestico. Fra locande in cui tenta di riposare, donne provocatorie che rivendicano improbabili parentele e cercano, maliarde, di sedurlo, inizia il vero iter disseminato di ostacoli del nostro eroe, a metà strada tra un paladino ariostesco che erra tra selve in apparenza identiche e labirinti di fiumi e di palazzi incantati e l’ingenuo Andreuccio da Perugia che, una volta a Napoli, trova paradiso e inferno e paga il prezzo della sua impulsiva curiosità.

La prova di iniziazione

Solo al termine del romanzo visionario e immaginifico, dove i fili narrativi si dipanano infine e rivelano una realtà complessa ma per nulla soprannaturale, capiremo che Alfonso è stato sottoposto dalla nobile e ambiziosa famiglia Gomelez a una prova di iniziazione, felicemente superata.

I classici tra le righe

Pirotecnico ed esotico, il Manoscritto trovato a Saragozza è un prezioso gioco letterario da regalarsi anche soltanto per scovare i mille rimandi ad altri classici del passato; fra gli altri, il Satyricon di Petronio e l’Asino d’oro di Apuleio: quest’ultimo, soprattutto, segue lo strampalato Lucio su e giù per la Tessaglia, terra di magie e di incantesimi come le selve oscure della catena montuosa iberica, a caccia di esperienze concrete mescolate a pagani e misteriosi riti.

Il film tratto da “Manoscritto trovato a Saragozza” (1965)

Non a caso, molti fini latinisti hanno definito l’opera del secondo secolo dopo Cristo una sorta di “romanzo picaresco” ante litteram. Comune ai capolavori citati è il processo di trasformazione, metamorfica o soltanto simbolica, a cui il protagonista va incontro.

Come ricorderà anni dopo il filosofo tedesco, “chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro”. Ma se monstrum nasce come parola che indica un segno divino e un prodigio che guida verso la comprensione dell’ineffabile, la letteratura gotica, in apparenza cultrice delle tenebre, squarcia il velo di Maia che tiene l’uomo al di qua del sacello. Il tempio va profanato: quid de nocte, ci provoca il Profeta?

Un’ispirazione per il regista Luis Buñuel

Nessuna notte è eterna, finché l’uomo scrive, inventa, mette in scena. Apuleio e Boccaccio, Petronio e Potocki, fino ai Surrealisti e al regista Luis Buñuel, che apertamente dichiarò di essersi ispirato al Manoscritto per la fantasmagoria del Fascino discreto della borghesia, uscito nel 1972. Anche la settima arte è custos, come l’angelo sulla via di Babele: “Viene il mattino, poi anche la notte”. Ancor non sono rotte le leggi d’abisso. E fu sera e fu mattina.