La lezione di Joan Didion sul potere consolatorio delle parole

Le promesse contengono già in sé la delusione. Il disincanto di chi le chiede e di coloro che, in buona fede, rassicurano e affermano che tutto si compirà, il dono sarà consegnato, il tempo di una passeggiata insieme trovato, la lettera spedita.

Si promette troppo e in modo incauto, si coltivano sogni impossibili nel proprio e altrui animo. Sensi di colpa vengono seminati e, quando giunge l’ora del raccolto, la cornucopia delle promesse è in realtà un povero piatto. Briciole e avanzi. Niente a che vedere con il furore degli impegni presi. Spesso soltanto a parole, che poco costano.

Anche la Natura crea illusioni con colori e suoni, mescola voci di cascate esplose con arcobaleni e pentole di monete auree. Dietro la curva del sole si avverte il profumo del rosso carminio, l’acidulo retrogusto del bianco, l’agrodolce di una pennellata di arancio. Sinestesie a profusione, tra terra e cielo.

L’illusione dell’eternità

Le Notti Blu sono poesia di odori e sfumature e danze cromatiche. Non si vedono sempre e ovunque: l’epifania si compie a certe latitudini nell’emisfero boreale, verso nord, intorno al solstizio d’estate. Tra fine maggio e giugno, dunque, primavera sfiorita ed estate che sta per bruciare: furit aestus, ma non ancora.

Al crepuscolo, inattesa, una promessa. Il cielo che di colpo, prima di cedere il passo all’atro buio, si tinge di luce azzurra intensa al punto da far male agli occhi. L’uomo volge in alto lo sguardo e ingenuo pensa – è solo un attimo ma non può evitarlo – che il colore profumato di oceano di quel cielo che oppone resistenza non può finire.

Il demiurgo che ha allestito lo spettacolo deve averlo concepito eterno, perché la bellezza che ammalia e consola non conclude. Come la vita di uno, nessuno e centomila Vitangelo Moscarda. E, invece, le notti azzurre, che lottano contro la morte del fulgore, annunciano spietate il capolinea.

Durano poco le giornate infinite di giochi al parco dopo cena e di granite ghiacciate lungo l’East River: tutto pare possibile sotto il manto di luce che azzera i confini tra impegni quotidiani e meritato riposo. Ore dilatate e la vita in pugno.

Finché senza araldi entra in casa l’autunno, non ci credi però devi, i lampioni si accendono un paio d’ore prima del consueto, la brezza dal mare è pungente e la cupola glauca sopra di te sparita. Nere notti più lunghe, un brivido di consapevolezza. Se anche il blu di Prussia acceso dal solstizio d’estate si è congedato, uomini e cose, dentro e fuori di te, prima o poi partiranno per un viaggio con biglietto di sola andata.

I lutti della scrittrice Joan Didion

Joan Didion, fra le più acute e raffinate penne della narrativa e saggistica americana contemporanea, trascorse buona parte di una lunga esistenza a New York, dove fu lieta testimone del fenomeno delle notti azzurre, mai viste durante gli anni psichedelici vissuti in California, il Golden State che avvolge persone, animali e piante e mare in una violenza monocromatica e priva di stagioni.

Sulla East Coast era teatro a cielo aperto, invece, prima della vampa estiva. Due lutti consecutivi, nel 2003 la perdita del marito, lo scrittore e sceneggiatore John Gregory Dunne, e nel 2005 la morte dell’unica figlia della coppia, Quintana Roo, adottata nel 1966 a pochi mesi dalla nascita, gettano Joan in uno stato di incredulità e di solitudine che la donna prova a medicare nel solo modo che il talento le concede.

La parola. La scrittura che nulla allevia ma traccia un percorso necessario alla sopravvivenza. L’umanità si divide in “sommersi” e “salvati”, raccontò straziato Primo Levi, e ciò non riguarda solo la tragedia della Shoah ma anche il tempo che abbiamo, quel che resta del giorno a ognuno di noi.

I sommersi ci precedono e scatenano nei sopravvissuti sensi di colpa, oltre alla dolente babele di sentimenti fuori controllo che ogni perdita lascia in coloro che rimangono. I salvati non sono mai davvero tali. Sono monadi spaesate che si aggirano in un mondo privo di contorni e di significato.

I riti e i progetti non abitano più con chi ha conosciuto lo strappo. Le orbite oculari sono cave, si cammina come Edipo in un universo altro e ormai alieno, si naviga a tentoni e ci si schianta contro alberi e colonne. Si inciampa in una panchina, che è sempre stata lì ma il giorno dopo la morte dell’amato pare cosa nuova e ostile. Gli oggetti tramano contro la persona in lutto, lo spazio assume le forme di una contorta e pericolante scala di Escher.

Un incubo visionario di cui non sai le coordinate. Eppure. Nessuno si salva da solo, si illudeva Seneca, fiducioso nella stoica etica della condivisione. Il cittadino perfetto è parte di una comunità, un ingranaggio fra i tanti, tutti necessari e nessuno indispensabile, della macchina che chiamiamo Stato. Civiltà, forse. Invece nel lutto ti salvi, se accade, da solo e basta.

Joan Didion lo sa da ère antiche, gli umani che praticano la parola come vocazione e impegno possiedono la verità da sempre. Scrivere aiuta a mantenere salda la presa, a fare ordine nel caos impazzito. La morte è una bomba a orologeria e spesso scoppia improvvisa. Una deflagrazione che squarcia corpi e pensieri, dilania i progetti. Rimanda il futuro a tempo indeterminato.

Perché siamo ingenui e ci culliamo nel sogno di un annuncio lieve, che permetta di accoglierla. Non succede mai, morire è offesa e guerra dichiarata ma lo dimentichiamo. Per resistere dobbiamo credere che, come le notti di liquido azzurro che danno il titolo al libro dedicato a Quintana, nulla cambi. Crepuscolo e anni fulgenti. Infiniti e invece già congedati quando si manifestano. La perdita del marito ha per Joan il carattere dell’urgenza: bisogna riordinare ciò che si è frantumato.

Attraversare la perdita (per non perdersi)

Ne L’Anno del pensiero magico l’autrice fa questo, con millimetrica precisione mette in fila memorie e aneddoti di ciò che è stato. Elabora o almeno ci prova, come avrebbe suggerito il padre della psicanalisi, l’evento.

Perché il lutto non si incancrenisca e trasformi in durevole malinconia, bisogna in qualche modo attraversarlo. Farsene abitare e scovare modi e tempi – personali come lo è ogni incontro e l’inevitabile separazione – per riconoscerlo e accettarlo come sgradito ospite. Che non se ne andrà. Lo sappiamo e dobbiamo fargli posto in casa. Guardarlo in faccia con sospetto e odio, certo, ma preparargli un giaciglio.

Non esiste, sanno bene gli psichiatri esperti di stress post traumatico, la cosiddetta gerarchia del dolore, ma la morte di un figlio è per definizione contro natura. Dunque sì, tutto duole quando chi amiamo cade fuori dal mondo, ma sopravvivere a un figlio non si presta all’umana comprensione. È oltre, una beffa strana e feroce che blocca i movimenti. Ci si ferma e così si resta. Annichiliti e definitivamente stranieri a se stessi. Salvati di nuovo mentre i figli sprofondano nel gorgo.

È salvezza solo apparente, necessaria a protrarre la farsa. Il genitore annega con il figlio. Si muore in due, rimane parvenza e poca cosa. Resta la parola, a volte. Per Joan, che in un paio d’anni sperimentò due gravi lutti, alla morte di Quintana cominciò a interrogarsi. A fare memoria. A creare ricordi di notti blu di colpo ingoiate e masticate nel buio della notte che non offre cura.

Le parole, unica consolazione

Scrive. Joan ancora e sempre affida alla parola su carta ciò che il cuore non può dire. Né il pensiero affrontare. La scrittura traccia confini in cui circoscrivere l’orrore, tenere a bada l’inferno.

Quando Plutarco perse la figlia Timossena, si trovava in viaggio e lontano da casa, dove la moglie disperata dovette organizzare le esequie per la bimba di soli due anni. Lo storico greco, prigioniero di quel mare aperto che tanto amava solcare e che ora era gabbia d’acqua che lo teneva separato dagli affetti, si sedette a prua e scrisse una lettera di consolazione. Per la moglie. Per se stesso, innanzitutto. Per contenere l’impulso di gettarsi tra i flutti. Anch’essi blu, come le notti a New York. Joan e Plutarco: il lògos è un’àncora per entrambi.

Il lògos è tutto, quando il futuro scompare. Li unisce, oltre alla perdita irreparabile, la passione per Euripide che, evocando lo strazio della ninfa Climene, madre di Fetonte fulminato da Zeus per avere osato guidare il carro del sole, le fece dire: “Ho in odio l’arco ricurvo di corniolo, che i giochi del ginnasio spariscano dalla mia vista”.

La dea evitava oggetti o attività che potessero ricordarle il figlio. Ogni visione riaccendeva il dolore ed era vissuta come impropria e oscena. Joan Didion, per non perdere il senno nel pozzo senza fondo dei ricordi dovrebbe fare lo stesso, ma non può.

Il giorno delle nozze di Quintana, i gelsomini del Madagascar nei suoi capelli, il fiore tatuato sulla spalla. Dettagli che buttano sale sulla ferita aperta. Fotografie dai contorni perfetti, anche. Sentimenti blu come le notti boreali, che muoiono a fine estate come la giovane donna. Blue Nights di luce indomita e passate, ormai. Come Quintana. Scenderemo nel vortice muti, urla il poeta. Ma prima eravamo fuori. Prima eravamo azzurri.