La magia della parola secondo Giusi Quarenghi

La parola, la fiaba, la poesia, ovvero gli “attrezzi dell’anima” nell’immaginario della letteratura ragazzi. È questo il titolo dell’incontro che chiude il Mompracem festival il 5 maggio (Ore 18.30, all’asilo Ciani, evento su prenotazione).

Protagonista la scrittrice Giusi Quarenghi, in dialogo con la giornalista Letizia Bolzani, autrice e conduttrice di programmi culturali per la Radiotelevisione Svizzera.

Quarenghi, 73 anni, è una delle più note autrici italiane di libri per l’infanzia che, negli anni, ha ricevuto diversi riconoscimenti tra cui, nel 2006, il Premio Andersen.

Quali sono questi “attrezzi dell’anima”?

La parola è la materia prima, tessuto e luogo primario della relazione tra singoli e all’interno della comunità. La parole che ci diciamo e quelle che non ci diciamo, quelle che ascoltiamo e il silenzio. Se, poi, come in questo caso, parliamo di bambini, le parole che che contano di più sono le loro, molto più di quelle che gli adulti rivolgono ai piccoli.

Il festival s’intitola Mompracem… Lei è una salgariana?

No. Ma perché non ho avuto l’occasione di esserlo. Semmai sono una “verniana”. Salgari l’ho incontrato che ero già adolescente. Mentre Jules Verne l’ho conosciuto prima. Ma, poi, Mark Twain ha spazzato via tutti…

Come ha iniziato a scrivere libri per bambini?

Direi che una delle ragioni è che è ho molto letto e che molto mi è stato raccontato. In italiano, in dialetto… Sono originaria di un piccolo paese di montagna, Sottochiesa, nel bergamasco. I miei avevano una trattoria con locanda, sono cresciuta lì, dentro una placenta di parole, che fossero rivolte a me o no perché erano storie di grandi che non mi riguardavano: un fidanzamento, una partenza, un ritorno…. All’epoca, poi, non c’era la televisione. Ma quel luogo era un teatro.

Che cosa leggeva da bambina?

Non avevo molti libri a casa ma, per fortuna, mio fratello, più grande di me, aveva diverse antologie. Poi, c’erano i volumi di devozione, quelli sui santi, il giornale dei reduci della prima guerra mondiale… Leggevo qualunque cosa. Alle elementari, in classe, avevamo solo tre libri: Cuore, Pinocchio e Piccolo alpino. La maestra li leggeva, uno per trimestre, un’ora al giorno. Passati in seconda, terza e quarta altri romanzi non ce n’erano. E lei che cosa ha fatto? Ha ripreso in mano gli stessi tre. Grazie a lei ho scoperto che rileggere è un’avventura non meno interessante che leggere per la prima volta. Sono molto riconoscente alla scuola, per me ha significato possibilità. Vederla svilita, oggi, mi preoccupa.

Fiabe da piccola non ne leggeva, quindi?

Le fiabe erano tessuto quotidiano nella vita di noi bambini. I luoghi che frequentavamo erano storie di per sé. C’era il posto dove si sentivano risuonare le catena dell’Inferno, un arco in un borgo in Alta valle dove andammo in gita che, secondo, la leggenda trasformava in vipera i cattivi che ci passavano sotto… Lo abbiamo fatto tutti, di nascosto dalla maestra, tremando. E, siccome nessuno diventò un serpente, pensammo di essere tutti buoni. Nessuno mise in dubbio che non fosse vero. E, poi, fuori dal paese, c’erano due baite: si diceva che se un bambino si fosse trovato lì oltre una certa ora sarebbe apparsa una strega che se ne stava con un piede su ciascun tetto e ti faceva la pipì in testa.

Cose che nelle favole contemporanee probabilmente non sarebbero più accettabili.

Lo so. Ma posso dire che è una perdita enorme? Il mondo è cambiato, ma proteggere soltanto non basta. Io sono dell’idea che le storie vadano raccontate, spiegate e motivate a seconda dei tempi. Bisogna documentare non cancellare. Ospitare la storia: il pensiero si muove, non si irrigidisce all’interno di dogmi perenni.

Che cos’è la fiaba?

Italo Calvino diceva che in ogni fiaba c’è qualcosa che, all’inizio, che va storto. Ma il protagonista, soprattutto se è il più piccolo, quello sbagliato, l’orfano, il trovato nel cestino, prende e va, si mette per strada. E andando fa incontri: animali, persone, cose. Che, in alcuni casi, sono lì per danneggiarlo, spaventarlo, ma quasi sempre, invece, tutto dipende da come come lei, lui reagisce. Se è gentile con gli animali, se rispetta i vecchi, se non ha fretta di arrivare primo, ma concede tempo agli altri, alla fine tutto questo gli gioverà. E un nuovo ordine verrà ristabilito, in cui chi contava meno, quello che mai la principessa avrebbe degnato di uno sguardo, diventa il prescelto.

Lei hai figli e nipoti?

Due e due. I miei nipoti hanno 10 e 6 anni. Ma al di là di quello che è il mio privato sono e mi sento nonna. E ho una fiducia costante e rinnovata nelle nuove generazioni. Hanno il viatico proporzionato a quello che la vita chiederà loro. L’umanità ricomincia con i bambini. La nostra principale preoccupazione, come adulti, dovrebbe essere di non rovinarli. Di lasciar loro il tempo di scoprire il mondo, invece di cercare di vederli già come saranno da grandi.

E gli adulti, invece, come possono tenere vivo il fanciullo dentro di loro?

Esiste un bambino da cui veniamo e un bambino verso il quale possiamo e dobbiamo andare. C’è un detto lombardo che tradotto suona: “A sette anni siamo bambini, a settanta lo siamo ancora”. Ma dobbiamo tenere caro il tempo, invece di darlo via “per”.

Cinque classici che ogni genitore dovrebbe tenere nella propria libreria?

In realtà, mi piacerebbe che ognuno potesse disporre della propria memoria letteraria. Così come portiamo i nostri figli in vacanza nei luoghi che ci ricordano i momenti più belli della nostra infanzia. Non puoi mettere nel piatto di un figlio una roba che che a te schifo dicendo: “Mangiala che ti fa bene”.