La mia “complicità isolana” con Goliarda Sapienza

Goliarda scrisse circa un terzo del suo romanzo L’arte della gioia nella mia casa di Gaeta. Insieme, poi, cominciammo a lavorare alla revisione del testo, e siccome era contenta del mio lavoro, da un certo punto in avanti me lo affidò integralmente. Man mano io le sottoponevo le mie scelte e lei le ha sempre approvate”.

Lo scrittore Angelo Pellegrino, oggi 76 anni, è stato il marito di Goliarda Sapienza, attrice prima, scrittrice dopo, morta nel 1996 a 72 anni in quella stessa casa di Gaeta, senza aver visto una riga del suo lavoro pubblicata.

 

 

Soprattutto senza aver visto il romanzo L’arte della gioia in libreria, un libro che Pellegrino definisce “Una sorte di versione italiana di Via col vento” e che, prima di diventare un successo editoriale non solo in Italia (In Francia nei giorni scorsi è uscito un omaggio alla scrittrice sulla copertina di Le magazine du Monde), venne pubblicato postumo la prima volta nel 1998 a sue spese dallo stesso Pellegrino.

Da allora, Pellegrino ha curato tutte le opere di Goliarda Sapienza che sono uscite negli anni e ha dedicato gran parte della sua vita a preservare la memoria della moglie.

In Goliarda, appena uscito per Einaudi, ripercorre per la prima volta la loro storia e la vita di lei precedente il loro incontro, ricostruita grazie ai suoi racconti. Lo fa attraverso i ricordi che riemergono in occasione dell’incontro con Judith, una giovane fotografa, innamorata dell’opera di Goliarda, che lo contatta per coinvolgerlo in un progetto fotografico che riguarda i luoghi della scrittrice.

Questa giovane fotografa è reale o è un espediente narrativo?

Entrambe le cose. Esiste, mi ha davvero contattato, ma mi è anche servita anche per portare avanti la storia, per creare una sorta di bio-fiction.

Aveva già scritto di sua moglie. Questo libro nasce da un esigenza di tipo nuovo?

Finora ho curato, anzi salvato, l’opera di Goliarda Sapienza. Quando morì non c’era una pagina pubblicata, adesso in libreria ci sono tredici titoli. Avevo scritto una prefazione a L’arte della gioia, un suo ritratto che mi era stato richiesto di Einaudi. Ma sentivo il bisogno di raccontare come vivevamo, i luoghi.

Spiega che scrivevate nella stessa stanza, gomito a gomito. Quanto era importante condividere anche lo stesso spazio di scrittura?

Vivevamo in un ambiente ristretto perché le nostre possibilità economiche erano altrettanto ristrette. Star bene insieme anche letterariamente ci consentiva di lavorare allo stesso tavolo. Il luogo in cui scrivi e la persona con cui lo condividi sono molto importanti. Alcuni favoriscono la scrittura, altri la ostacolano. Si tratta di vibrazioni… È difficile da spiegare ma ogni scrittore sa di che cosa parlo.

A proposito del vostro incontro scrive: “Ogni storia all’inizio si somiglia, è il dopo che conta”. Come descriverebbe il vostro dopo?

Pieno di opposizioni, rifiuti, vissuto in una condizione di povertà reale che ci ha indotto a dover fare certe scelte… L’arte della gioia è stato un po’ come quel figlio che Goliarda, per questioni di età, non poteva più avere. Ma questo romanzo-figlio non è mai nato, non ha mai potuto vivere in libreria, è rimasto chiuso in una cassapanca per vent’anni.

Lei aveva ventidue anni di meno, una differenza di età che era quasi scandalosa.

C’era solo un precedente, ma molto remoto: la relazione fra Sibilla Aleramo e Franco Matacotta, 40 anni più giovane di lei. Avevamo un’intesa profonda sulla vita, una consonanza di idee in parte “isolana”. Io sono originario di Palermo, Goliarda era di Catania, ci univa l’amore per la mediterraneità in genere. La prima intuizione di Modesta, il personaggio dell’Arte della gioia, l’ebbe a Positano, almeno così raccontava lei.

Scusi la domanda un po’ brutale: perché vi siete sposati? Solo per la consonanza di idee?

Era un modo per saldare ancora di più un legame che era stato contrastato, fortissimamente ostacolato. E anche un modo per lei di passare il testimone, nel senso che, essendo più giovane, avrei continuato da solo una volta che lei non ci fosse più stata. Entrambi eravamo convinti che se non c’è nessuno che difende la tua memoria muori due volte.

Come fu il matrimonio?

Molto laico, essenziale. In Campidoglio a Roma, un testimone ciascuno.

Chi si opponeva alla vostra relazione lo faceva apertamente o alle vostre spalle?

A volte basta il silenzio, l’esclusione. Prima che ci mettessimo insieme, il suo telefono e il mio bollivano di telefonate. Dopo più nulla: un’assenza tombale di chiamate, proposte. Una situazione pesante. Oggi, forse, sarebbe diverso. Almeno me lo auguro.

La condanna della vostra relazione potrebbe essere una ragione dei tanti no che il romanzo di Goliarda ricevette dagli editori? Il fatto che entrambi avevate un giro di conoscenze e amicizie tra gli intellettuali dell’epoca rende la tenacia di quei rifiuti quasi inspiegabile.

Non c’è una sola causa ma una serie di concause. Basti pensare che quando Goliarda uscì da Rebibbia (Dove aveva scontato tre mesi per il furto di gioielli a casa di un’amica, ndr) si formò un comitato di amiche. Fondarono una casa di produzione con l’obiettivo di fare dell’Arte della gioia uno sceneggiato per la Rai, pensando che questo avrebbe finalmente convinto un editore a pubblicare il libro. Una regista si occupò di preparare la sceneggiatura e di farla avere a un dirigente della televisione, suo amico. Qualche giorno dopo, la chiamò, le disse: “Ma siete pazze? Davvero pensare di poter mandare in onda questa roba?”. C’erano elementi nel romanzo che erano intollerabili per i costumi del tempo. Ancora oggi, questo libro suscita in alcuni una forma di rigetto.

È come se fosse vissuta nel periodo sbagliato. Anche da attrice. Lei stesso, nel libro, scrive che non aveva la faccia giusta per il cinema di quei tempi.

In una certa misura sì. C’era già stato il Sessantotto, ma certe idee di libertà ancora riguardavano solo le élite. In Francia, dove c’erano attrici come Simone Signoret, probabilmente avrebbe potuto avere una carriera cinematografica. Non in Italia.

Eppure negli anni Cinquanta aveva lavorato con Luchino Visconti, Mario Camerini, Luigi Comencini… Perché aveva smesso di recitare?

Principalmente per poter scrivere. Aveva una vita interiore cui teneva di più e il cinema amava vederlo, ma non farlo. Chiamava l’obiettivo della macchina da presa “quell’occhio cieco”. Mentre era eccezionale a teatro, sul palco. Le interessava il teatro d’avanguardia e dopo la fine della guerra mise su una compagnia con alcuni amici. Ma gli spettacoli allora dovevano ottenere il visto della censura… Ma, guardi, lo voglio dire: il vero grande talento di Goliarda Sapienza era teatrale e drammaturgico.

Lei, però, per una banale questione anagrafica non può averla vista a teatro.

Vero. L’ho vista in qualche filmato ma, soprattutto, al Centro sperimentale di cinematografia di Roma dove, negli ultimi anni, insegnò recitazione. Vedendo che cosa era capace di fare a 70 anni con i suoi studenti non era difficile immaginare come doveva essere stata a trenta.

Nel libro racconta episodi della prima parte della vita di sua moglie. A Goliarda che piaceva parlare di quel periodo, della sua infanzia, o era a lei a essere curioso, a fare domande?

Ero soprattutto io a chiedere. Ero giovane, volevo sapere, crescere, e da lei c’era molto da imparare.

Ci sono ancora inediti o ha pubblicato tutto?

So che dispiace molto ai lettori ma di opere compiute ancora chiuse in un cassetto non ce ne sono più. Però, c’è un carteggio con Citto Maselli al quale era stata legata negli anni Cinquanta, che è molto interessante perché è lo scambio tra una coppia di intellettuali sullo sfondo dell’ambiente cinematografico di quell’epoca. E, poi, pagine sparse, appunti di viaggio, altre lettere. Però se ne occuperà qualcun altro dopo di me.

Ha già in mente a chi lasciare questi scritti e anche gli oggetti personali che immagino avrà conservato?

Stiamo ragionando su una Fondazione all’Università di Catania per accogliere l’archivio, mentre la biblioteca di Goliarda penso che passerà a mio figlio. Ma è troppo presto, ha solo vent’anni.

Essere l’ultimo testimone della vita di Goliarda talvolta le pesa?

Sì. Ma diciamo che la gioia sovrasta il fardello di essere rimasto l’unico e l’ultimo ad averne memoria diretta.

Il prossimo anno arriverà una serie Tv tratta dall’Arte della gioia e diretta da Valeria Golino. È stato in qualche modo coinvolto nel progetto?

No, ma ho grande stima della Golino che ha conosciuto Goliarda perché è stata una sua allieva al Centro sperimentale. Sono curioso anch’io di vedere come sarà, premesso che il cinema e le serie sono un’altra cosa, un’altra poetica, rispetto ai romanzi. Negli anni passati io stesso avevo pensato che si prestasse a diventare un film, un sorta di versione italiana di Via col vento.

È possibile che il fatto di aver raggiunto il successo dopo la morte sia uno degli ingredienti della sua attuale notorietà?

Sicuramente, nell’arte, tutto ciò che è postumo ha il suo fascino.