La ribellione ostinata e tranquilla di Catherine Johnson

Se le veniva chiesto come affrontava la discriminazione e la segregazione razziale alla NASA dei suoi tempi, la dottoressa Johnson rispondeva che ne era ben consapevole ma che, una volta attraversati i cancelli, aveva un compito da svolgere. E che lei faceva sempre del suo meglio, qualunque cosa succedesse. ‘Facevo solo il mio lavoro’, diceva. Dal suo punto di vista, svolgeva i compiti che gli uomini non volevano sobbarcarsi perché si occupavano di cose più importanti”.

Così scrive Yvonne Darlene Cagle, l’astronauta americana nella prefazione dell’autobiografia di Catherine Johnson, Il mio viaggio spaziale, pubblicata in Italia da Hoepli.

La donna dei calcoli dell’allunaggio

Johnson era una delle matematiche che fece fece i calcoli che resero possibile l’allunaggio dell’Apollo 11 il 20 luglio del 1969 e che, in seguito partecipò anche al programma space shuttle e ai primi studi per le future missioni su Marte.

A quei tempi, i computer non erano poi così affidabili e il check dei dati elaborati dalle macchine venivano sempre verificati dagli esseri umani. In particolare dalle donne perché, come raccontava appunto Johnson alla Cagle, gli uomini preferivano occupazioni di maggior prestigio.

La sua storia, come quella di altre sue colleghe, è stata raccontata per la prima volta in un film, Il diritto di contare, che uscì nel 2016 e che ricevette tre nomination agli Oscar l’anno seguente.

Alla ricerca delle donne dimenticate

Il libro rientra in quello che ormai è un vero e proprio filone – sia al cinema che in libreria – ovvero quello della riscoperta del ruolo delle donne: scienziate, artiste, scrittrici, artiste. Una lunga lista di personaggi femminili dimenticati, messi da parte, screditati.

Ma quello che colpisce nel racconto della Johnson è l’assenza totale di senso di rivalsa, di recriminazione. Forse perché i ricordi raccolti nel libro appartengono a una donna che all’epoca era centenaria: sarebbe morta, infatti, a 101 anni, il 24 febbraio 2020, prima ancora della pubblicazione del libro.

Una pacatezza poco contemporanea che potrebbe essere essere scambiata per un segnale di accettazione gandhiana oppure una carenza di combattività.

Catherine Johnson nel 2015 alla Casa bianca con il presidente Obama

Dopo essere stata metaforicamente presa a calci nel sedere per tutta la vita, nel momento in cui vieni invitata alla Casa bianca per essere premiata da Obama – il primo presidente nero degli Stati Uniti – con la medaglia presidenziale della libertà, la più alta onorificenza concessa in America, non è umano mostrare un tantino di senso di rivincita?

Eppure, leggendo il libro, si capisce che Johnson non cedette neppure per un momento al gusto di “vendicarsi” di tutte le ingiustizie subite.

Come aveva fatto per tutta la vita. Fin da ragazza.

Una vita di segregazione

Quando racconta del suo primo viaggio dalla Virginia Occidentale, dove era nata, fino in Virginia, dove la segregazione razziale era molto più rigida, rievoca i fatti con il distacco di un cronista super partes: “Il pullman si fermò all’improvviso e l’autista berciò: ‘Neri, in fondo!’. Osservai la scena allibita, senza una parola, e mi adeguai. Quando poi venne il momento di cambiare pullman, ai bianchi fu permesso di farlo, ma l’autista urlò verso di me: ‘Gente di colore, venite tutti qui!’. Finsi di non sentirlo finché non ebbe moderato i toni. Spiegò che gli autobus non servivano i quartieri delle persone di colore. I neri dovevano quindi pagare un tassì o organizzarsi altrimenti. Salii su un’automobile e mi diressi verso il mio futuro”.

E con la stessa pacatezza ricorda che, molti anni dopo, nel 1963, quando Medgar Evers, il primo segretario statale della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) in Missisipi – venne assassinato, lei scelse di non unirsi alle proteste dei neri – in quella che fu definita Marcia su Washington – e in seguito non si espresse in merito alla lotta delle leader dello stesso movimento discriminate dai loro compagni. Scrive: “Penso di aver dato il mio contributo dall’interno. Ogni volta che facevo il mio lavoro al meglio delle mie abilità e riuscivo a svolgere l’incarico in questione, non è escluso che dimostrassi a chi liquidava donne e neri che eravamo capaci quanto chiunque altro, se non di più. E ogni volta che facevo pressione per arrivare là dove nessuna donna o nessun nero era mai giunto prima, e ci riuscivo, era una vittoria per tutti noi”.

Ribellarsi, sì. Ma come?

Al di là della sua storia personale, il libro fa riflettere proprio su questo: esiste un modo migliore di affrontare l’ingiustizia? Oppure ognuno, alla propria maniera, può contribuire a cambiare la storia: chi gridando in piazza, chi standosene seduto alla scrivania a fare il proprio lavoro? O, ancora, è possibile che esista una via di mezzo che, forse, è quella che una maggioranza silenziosa ma non passiva sceglie tutti i giorni: non urlare e neppure accettare le umiliazioni?

Johnson sembra far parte di questo terzo gruppo. Anche se di lei si è finito per parlare per via delle sue straordinarie capacità finalmente riconosciute .

E proprio per questa ragione, forse, andrebbe ricordata anche come una sorta di “santa patrona” di tutti quelli che non si fanno mettere i piedi in testa – per lo meno ogni volta che le circostanze lo permettono – e continuano ostinatamente a dimostrare nei fatti quanto i pregiudizi siano stupidi e infondati.

Un esempio? Quando parla de Il diritto di contare, dice che a differenza di quello che il suo personaggio è costretta a fare nel film, lei non ha mai dovuto correre avanti e indietro nel centro Langley della Nasa per usare un bagno riservato ai neri. “È vero che per gran parte del tempo in cui ho lavorato lì c’erano in effetti bagni separati per i dipendenti bianchi e neri, ma io ho sempre usato quello più vicino al mio ufficio. Non seguivo le regole. Ritenevo di non valere meno di chiunque altro e così, anche dopo aver capito che c’erano bagni per persone di colore, semplicemente mi rifiutai di usarli”.

Niente bagni per le persone di colore e niente mensa per i neri. Sarebbe stata un’umiliazione, scrive, che lei silenziosamente evitò per tutto il tempo “mangiando alla mia scrivania”.