Perché “La ricreazione è finita” non è un memoir di brigatisti

Il titolo è preso a prestito da De Gaulle, che usò la frase rivolgendosi ai ragazzi del Maggio francese perché dimenticassero la rivoluzione e tornassero a studiare.

La ricreazione è finita però in questo caso è in bocca a Barnaba – studente e in futuro… nel finale arriverà lo svelamento – e assume il senso opposto: siamo nel ’77 e se si vuole essere davvero rivoluzionari bisogna impugnare le armi e organizzare rapimenti.

Quello di Dario Ferrari non è un saggio di politica, né un memoir di brigatisti. È un romanzo. Dove la Brigata Ravachol, di cui Barnaba era adepto, rappresenta una delle facce del prisma letterario.

Della Ravachol, gruppo di amici viareggini brigatisti un po’ per caso e un po’ per dolore, dopo che un compagno era stato defenestrato in Arno dalla polizia, faceva parte infatti Tito Sella, che sarebbe poi diventato scrittore ma avrebbe anche finito la vita in carcere, dopo un rapimento finito nel sangue.

Su di lui, nei tempi d’oggi, indaga il protagonista Marcello Gori. Trentenne vitellone della sponda toscana, finisce fortuitamente (o forse no) a fare un dottorato in Italianistica comparata all’università di Pisa e il suo professore, Sacrosanti, gli affida la tesi di dottorato proprio su Sella.

Dario Ferrari, al suo secondo romanzo, in quello stesso ateneo si è laureato in Filosofia e ha a sua volta conseguito un dottorato. Il che significa che conosce benissimo l’ambiente accademico. E, per quanto le Note dell’autore sottolineino che quel dipartimento di Italianistica lui non lo abbia frequentato e non abbia “niente a che vedere con quello reale”, in realtà l’ambiente descritto è “sì irreale ma non irrealistico”.

Tutte le logiche di spartizione del potere, di equilibrismi logistici, di dotte spiegazioni su come far moralmente fuori un collega o “intortarsi” adeguatamente il mentore sono descritte con tale competenza da rendere il grottesco più che verosimile. Tutt’altro ambiente rispetto al BarLume e ai vecchietti di Malvaldi, ma uguale sarcasmo intinto in lingua toscana.

Con tanto di dissertazioni lessicali, dove si capisce che durante un convegno dare del “colto” a un collega significa dirgli che è insignificante, “tutto fumo culturale e niente arrosto”, e che “dotto” significa “una palla mortale, per quanto erudita”, anche se il peggio insulto è “erudito”, ossia “gratuitamente saccente.

Mentre – sul lato opposto della scala del bon ton accademico – certo ci sono “rivoluzionario”, “stimolante” o “illuminante”. Però, se si vuol parlare bene di qualcuno di altra parrocchia baronale… “Non lo so, se si può fare”.

Da Pisa poi la ricerca si sposta a Parigi, alla “be-en-fé”, la Bibliothèque Nationale de France. Dove il dottorando resta fulminato sulla via delle belle lettere da una bella fanciulla che gli spiega: “La letteratura italiana poteva scegliere tra Dante, che parlava sporco, era incazzato e faceva politica, e Petrarca, che invece era tutto perbenino, parlava aulico e stracciava il cazzo. E chiaramente ha scelto il moderato senza palle: e quindi alla fine abbiamo avuto una letteratura mediocre”.

Fra un commento letterario e un incontro con gli espatriati di ieri e di oggi, il romanzo intanto cambia regime, segue il progressivo immedesimarsi del protagonista nella storia di Tito, della ragazza che amava e dei suoi amici.

In fin dei conti, il narratore si chiama Marcello, come (absit iniuria) quello della Recherche e il suo autore: chissà se la letteratura potrà, come per il francese, diventare lo strumento del “tempo ritrovato”, salvare il trentenne dall’abulia in cui fino a quel momento ha vissuto.

Prima avevo studiato i suoi romanzi, poi mi ero messo a riscrivere la sua vicenda: adesso era venuto il momento di provare a diventare lui”, riflette Marcello Gori, a proposito delle scoperte che progressivamente fa non solo sugli scritti ma anche sulla vita di Tito Sella (nonostante Sacrosanti lo abbia diffidato dal cedere al biografismo critico).

A questo punto di La ricreazione è finita però c’è ancora materia per scoprire un’altra faccia del prisma, prima che si concludano le 460 pagine. Basti dire che alla fine la letteratura, o perlomeno il dottorato di ricerca in Italianistica Comparata, servirà comunque a crescere. Sia pur fuori dai confini dell’Università.