Come passione aveva Palermo, ma la sua missione era la speranza.
Magari “fallace” e ogni giorno “da inventare”, ma una volontà che pur conoscendo l’orrore non ha soppresso. Perché Letizia Battaglia, a differenza di Mario Monicelli, non ha mai pensato che continuare a sperare fosse una trappola, più un esercizio di forza che variava con il colore dei capelli, fino a trasformarsi nel bianco e nero delle sue fotografie.
Una bipartizione cromatica, figlia di Diane Arbus e Sally Mann, perfezionata con Josef Koudelka, che calpesta le strade buie e puzzolenti, accarezza i corpi delle bambine e i loro quartieri, saluta con pudore i cadaveri abbandonati dalla mafia, incorona le miss e immortala commissari, giudici e politici.
Palermo, in un’unica grande foto: la vita di Letizia Battaglia.
Se Giuliana Saladino, scrivendo, ha saputo descrivere la città valicando i suoi piani come uno stormo, Battaglia è rimasta fedele alla soggettiva anarchica dell’altezza dei bambini: il marciapiede che costeggia la strada.
Un interesse al prossimo e all’umanità in difficoltà, per entrambe le artiste, nato anche grazie alla scuola di criticità, scambio di idee e lotta del quotidiano L’Ora. Il giornale che soprattutto durante la direzione di Vittorio Nisticò, seguì e raccontò le inchieste sulla mafia e gli appalti truccati, le faide famigliari e il degrado dei quartieri, uno spazio di libertà occupato anche da Mauro De Mauro, Leonardo Sciascia, Renato Guttuso e Vincenzo Consolo.
Da qui Letizia Battaglia, la fotografa in gonna a fiori e zoccoli olandesi, inizia a raccontare “la vita e la morte“, come ripete nel film Palermo Shooting (2008) di Wim Wenders: anche gli assassinati hanno diritto ad essere “onorati, ricordati, perché non si perdano nella memoria“.
Un lavoro portato avanti non senza ostacoli: è lei stessa a confidare a Franco Maresco, nel documentario La mia Battaglia (2016), “i colleghi mi vedevano malissimo, i poliziotti mi vedevano malissimo, tutti mi vedevano malissimo“; una biondina che cerca di farsi spazio tra i reporter maschi, costretta ad urlare per avere accesso ai luoghi del delitto. Un grido ascoltato dal capo della squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, il primo ad accreditarla, sentenziando: “Fate passare la signora“.
E l’investigatore non sarà l’unica vittima caduta per la lotta alla mafia che Letizia Battaglia conoscerà: negli anni la fotografa starà al passo e diventerà testimone dell’impegno e della scomparsa, delle vittorie e delle sconfitte di Pio La Torre e Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Tutti corpi che non ha potuto fotografare una volta diventati freddi e senza respiro, stavolta senza alcun rimpianto.
Un destino non riservato a Piersanti Mattarella, ucciso nel 1980 durante il suo mandato di Presidente della Regione Sicilia: una delle opere più famose di Battaglia, che immortala il cadavere del politico riverso in una macchina, soccorso inutilmente dal fratello Sergio. Eppure il suo obiettivo si nega quando è impiegato a ritrarre il male.
Negli anni rifiuterà spesso di fotografare i boss, soprattutto dopo l’esperienza al processo di Luciano Liggio: “Ho solo uno scatto poco fermo, ma nelle altre fotografie tremo, non di paura, ma per l’emozione per quell’espressione di potere crudele“, per la spavalderia di un corpo che non prova vergogna e non si sottrae, ma continua a voler imporre timore e soggezione.
Lo stesso accade con Leoluca Bagarella: il tempo di immortalare il suo arresto, che il mafioso legato ai Corleonesi le dà un calcio, perché oltre al danno e al disonore per la caduta, c’è il disprezzo per chi lo guarda: “Tu, donna, come ti permetti, sembrava volermi dire“.
Ma dove la mafia deturpa tutto quello che ha intorno, condannandolo al brutto, Battaglia non si arrende a cercare la bellezza nella disperazione di chi è stato escluso, negli sguardi di chi dalla vita ha ricevuto solo miseria e sconfitta: è degli anni ottanta la sua esperienza presso l’ex manicomio di Palermo, una prova che gioca in parallelo con il teatro di Franco Scaldati.
Una sfida accettata e maturata con sensibilità dopo il periodo di cura e fragilità con lo psicologo freudiano Francesco Corrao. “Ero attratta moltissimo“, racconta a Franco Maresco, “volevo entrare lì dentro e portare qualcosa. Ricordo che fu molto difficile, perché erano diffidenti e io una giornalista“.
Con l’aiuto del collega Franco Zecchin e della figlia Shobha, la fotografa apre una via di interazione, abbatte un muro di silenzio e disprezzo che la società ha imposto nei confronti del disagio psichico per lasciare che l’immagine delle sue opere sia occupata dall’ umanità e dalle solitudini degli emarginati. “Palermo pazza? No, non è abbastanza pazza, perché se no starebbe per le strade a urlare, a volere, a piangere anche“.
E di piangere nell’estate nel 1992 non si smette. Dopo la stagione del maxi processo – periodo che coincide con i primi riconoscimenti personali alla fotografa, tra tutti: il Premio Eugene Smith, a New York nel 1985 – in cui la lotta alla mafia sembrava aver segnato dei punti fondamentali per sopprimere la criminalità organizzata, il 1992 è l’anno delle stragi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, una nuova era di buio e di sfiducia, la fine della speranza nella frase di Antonino Capponnetto: è finito tutto.
E se per Battaglia il dolore è così forte da voler abbandonare tutto per fuggire in Groenlandia, come ogni volta che scapperà da Palermo, ne tornerà sempre più innamorata. Perché se anche Milano la accoglierà nei primi Settanta – tempo in cui ha la possibilità di incontrare e fotografare Pier Paolo Pasolini – e nei successivi anni non mancheranno occasioni di trasferirsi a New York, Londra o Parigi, è nella sua città che continua a riconoscersi, “negli odori, nei gesti, nelle voci, negli angoli“.
Palermo le piace così: “slabbrata, decadente, povera“. Un posto che ora più che mai con il nuovo millennio le impone un compito e una sfida: far ripartire la speranza, con i laboratori di formazione, e custodire la memoria di chi non c’è più. L’antimafia non è un tempo che può andare perduto.
Una fiducia nel prossimo a volte disattesa – come testimonia il film La mafia non è più quella di una volta (2019, disponibile su Prime) di Franco Maresco – soprattutto dalle manifestazioni del 23 maggio in ricordo dei giudici Falcone e Borsellino: “Ci manca solo l’odore del maiale arrostito” ripete al regista, circondata da studenti che ballano e cantano, giornalisti che le chiedono “il significato di trovarsi qui“. Perché non c’è niente di peggio dell’emulazione del ricordo, un gesto vuoto e senza importanza se non si conosce e studia bene prima cosa è stato e cosa sia accaduto. “Non potevo aspettarmelo ma forse non dovevo neanche vivere tanto“.
Eppure nel 2017 collabora alla costruzione e inaugurazione del Centro Internazionale di Fotografia di Palermo, un archivio storico che raccoglie gli scatti di oltre 150 fotografi, e anche se perfettamente cosciente dell’involuzione nella società, dalla sua Palermo al mondo intero, preserva una granitica ma mai ingenua ossessione per un futuro migliore, soprattutto quando ci sono da evitare gli assalti del pessimismo cosmico e leopardiano dell’amico Franco Maresco.
Uno sforzo che ribadisce il suo impegno, “faccio la mia parte“, anche quando ogni condizione avversa, in ogni estate torrida estate palermitana, senza smettere di muoversi e progettare, criticare e accusare. Perché questo è in fin conti quello che ci mancherà di Letizia Battaglia, un’amica incrollabile e piena di fragilità, che non hai smesso di trovare bellezza nonostante i percorsi tortuosi e a ostacoli della lotta, una persona che di fronte a una piccola vittoria ti ricorda, come a Franco Maresco: “Hai visto, scettico di merda“?
Letizia Battaglia (5 marzo 1935 – 13 aprile 2022)