La testa perduta del giornalismo

Prima viene la storia.

Nelle acque basse e limacciose del fiume South Anna galleggia il corpo decapitato di Isabel Ducharme, studentessa di una piccola università a Richmond, in Virginia. La testa perduta viene ritrovata subito, recapitata via posta in una scatola 30×30 al padre di Isabel a Boston. La polizia indaga, individua in quattro e quattr’otto un possibile colpevole (il fidanzato della vittima) ma – ovviamente – c’è chi non ci crede. È Willie Black, il protagonista di Oregon Hill (NN Editore, pagg. 286, euro 18, traduzione di Chiara Baffa) il romanzo di Howard Owen.

Willie è un cronista di nera del giornale locale. Beve troppo, fuma troppo, ha troppe ex mogli (tre), una figlia con cui parla troppo poco. Tuttavia non è un maledetto alla Harry Hole di Nesbø, non è tormentato come il Fabio Montale di Izzo, non è un genio contorto come Jean-Baptiste Adamsberg della Vargas. Eppure è un personaggio che ti piace subito perché ti ci ritrovi nei sogni, nelle illusioni e nella speranza che alla fine – ma proprio alla fine – le cose possano andare per il verso giusto.

Ed è lui a rendere questo giallo-noir-hard-boiled-o-quello-che-vi-pare una lettura così piacevole al termine della quale tutti i nodi vengono al pettine: il vero assassino viene scoperto e persino qualche piccola ingiustizia collaterale viene sanata.

Secondo viene il luogo.

Quello del titolo. Oregon Hill è un quartiere isolato su una collina alla periferia di Richmond. E come spiega bene Chiara Baffa nella Nota del traduttore al termine del libro, sin dai tempi di Chandler l’ambientazione nei romanzi gialli-noir-hard-boiled-o-quello-che-vi-pare è molto più di uno sfondo. È qualcosa di vivo e pulsante, che fa parte della storia, non si limita a ospitarla. E verrebbe da dire che è una teoria che va oltre il genere. Basti pensare a straordinari romanzi come Eureka Street di McLiam Wilson o Ohio di Markley per citarne due che più diversi non si può, così lontani nel tempo e nello spirito, per poter azzardare che la regola è applicabile ovunque.

E infine, terzo – ed è qui che volevamo arrivare – viene il mestiere.

Che è quello di Willie Black, ma anche del suo creatore, Howard Owen, che per quarant’anni ha fatto il giornalista.

Oregon Hill in fondo è anche un epitaffio di un mondo che muore, quello dei giornali come le persone della mia generazione li hanno abitati e vissuti. E colpisce fino a fare male che una storia americana descriva con la precisione di un bisturi – seppure maneggiato con il sorriso sulle labbra di un chirurgo sadico – ciò che succede nei giornali al di là dell’Oceano, e che potrebbe essere raccontato con le stesse parole qui.

Wille è un cronista di esperienza, retrocesso dalla Politica alla Nera (sui suoi bigliettini da visita la correzione è fatta a penna). Punito con il passaggio al turno di notte e poi con quello dalla carta al web, vissuto come un altro passo verso l’inesorabile discesa. Dice Black:

«Le rotative si fermano molto prima delle due di notte. A dirla tutta, per qualche oscura ragione i tempi di consegna vengono anticipati ogni volta che questo avvilente settore decide di impiegare qualche nuova tecnologia. Ma se uno sporadico assassino insonne uccide il suo compagno di bevute perché non vuole sganciare una sigaretta dopo la chiusura dei locali, potete scommettere che mi troverete lì, Willie-sempre-pronto, a scriverne per i quindici “lettori”, anche loro insonni, che sentono il bisogno di aprire il nostro sito prima dell’alba. Pensate che scherzi sui quindici lettori? Ho visto i numeri, amici miei».

L’amarezza di Willie (e di Howard Owen) è quella che provano i molti che hanno amato questa professione e la vedono lentamente e inesorabilmente affondare. Con la consapevolezza che non basta abbattere i costi per salvarlo. Non bastano, come vengono raccontate in Oregon Hill, le chiamate al piano di sopra per sentirsi dire «prepara gli scatoloni, oggi è il tuo ultimo giorno».

Così come non serve una selezione fatta solo sui costi e non sulle capacità. Né ridurre le redazioni all’osso. Perché poi succede che si racconta come Boris Becker si prepara a diventare sindaco di Londra. Si sostiene commossi che Sonia Gandhi è una parente del Mahatma. Si pensa atout e si scrive hatù, che anche se si leggono allo stesso modo hanno significato e utilizzi differenti. Si arriva all’aeroporto e si mostra il biglietto al check point. In buona sostanza, si prendono phishing per fiaschi.

E tutto questo non è fiction.

E se ancora non fosse chiaro, c’è un passaggio nel libro che sintetizza ciò che sta accadendo là come qua.

È sempre il nostro Willie a raccontarlo: «Più o meno tre anni fa è arrivato un nuovo caporedattore centrale che adottava un metodo giornalistico più aggressivo di quello a cui eravamo abituati. In parole povere, voleva che alzassimo il culo dalla sedia e ci andassimo a cercare le notizia con un po’ più di determinazione.

Un ex vicegovernatore della Virginia stava morendo di Aids. Lo sapevano praticamente tutti, ma il nuovo caporedattore centrale voleva che lo mettessimo nero su bianco. A me non sembrava necessario e gliel’ho comunicato. Quando mi sono rifiutato di introdurmi nella sua stanza d’ospedale nella sua ultima settimana di vita, lui ha trovato qualcun altro disposto a farlo. C’è sempre qualcuno.»

Ecco, sì. C’è sempre qualcuno.

E nemmeno questo, purtroppo, è fiction.