La “vita incauta” di Macbeth (e di tutti noi)

Creature in preda alla scelta, siamo. Essere o agire? Farsi trascinare o decidere? E decidere cosa? Anche una volta che la decisione è presa le strade si biforcano, si fanno labirinto, intrico e intrigo, ci insegna Macbeth. Si sta come in apnea nella sarabanda delle voci di una “vita incauta”, come Giovanni Raboni chiamava l’esistenza in cui bene e male sono contigui e gli accadimenti sono tanto aspri da sembrare angeli e demoni di carne e ossa.

Incauta. Ovvero imprudente per l’impossibilità di prevedere le conseguenze del proprio agire. Una definizione che potrebbe applicarsi alla vita che tutti viviamo.

Un’imprudenza che porta Rossella Pretto a intraprendere un viaggio in Scozia – da Glasgow all’isola di Iona, nelle Ebridi, a Inverness, porta delle Highlands – sulle orme della tomba di Macbeth, personaggio-archetipo che da anni la ossessione e con il quale spera di “fare i conti”.

Rossella Pretto (foto di Mario Cecconi)

Lo racconta nel libro La vita incauta (Editore: Editoriale Scientifica Collana: S-Confini): tra appunti di viaggio e sue riflessioni letterarie e personali (la famiglia e il gatto-bambino al quale è costretta a decidere se togliere la vita).

Ha deciso di fare questo viaggio per poi scrivere il libro o l’idea del libro è venuta dopo?

Il libro è ha preso forma in molti anni, a cominciare dalla mia tesi di laurea su Macbeth. Su questa tragedia ho scritto tanto, in molte forme diverse. Anche per questo, La vita incauta è una sorta di collage di riflessioni: personali, di critica letteraria, di viaggio.

Com’è stato il procedimento di scrittura?

Avevo tantissimo materiale, come dicevo: appunti, un saggio, lettere a Macbeth, una sorta di romanzo. Volevo che il testo mantenesse la sua eterogeneità. Mi piace quando nei libri ci sono tante voci perché rispecchiano lo zoo che tutti, chi più chi meno, abbiano nella testa. L’obiettivo era trovare una conclusione alla mia esperienza con Macbeth, con questo archetipo. Ci sono opere che stanno lì e ti “guardano”. Per me Macbeth è stato questo.

L’ha trovata la sua conclusione?

Io credo che chi scrive, se si pone in maniera autentica rispetto al proprio desiderio, alla propria vocazione, debba farlo per indagare, cercare una risposta senza sapere se la troverà. Non sono certa di averla trovata.

Scrive che per anni ha visto Macbeth dappertutto. In altri libri, personaggi, momenti di vita. Mi fa degli esempi?

Avevo ricominciato a occuparmi molto di Macbeth dopo il mio ritorno a Vicenza, la città in cui sono nata e che avevo lasciato per studiare a Roma e, poi, per trascorrere un periodo di tempo a Milano. Nell’incertezza di non sapere bene che cosa fare della mia vita e nel tentativo di riambientarmi, ho ripreso a frequentare alcuni corsi universitari che mi interessavano. E ogni opera che si affrontava nelle lezioni, dal Simposio di Platone a Lacan, io trovavo un motivo per accostarla a Macbeth. E, così, ho ricominciato a studiare, testi di critica che magari avevo tralasciato durante la tesi e altri che erano usciti nel frattempo. Inoltre, in quel periodo, avevo anche un gruppo di teatro, diciamo amatoriale, e si ragionava su una messa in scena, in realtà mai realizzata, di Macbeth.

Lei avrebbe interpretato Lady Macbeth?

No, no. Io non sarei stata in scena.

Però per un certo periodo ha fatto l’attrice. Con la recitazione ha chiuso?

Sì. È stato un intermezzo – amatissimo – per riuscire ad ammettere che la scrittura faceva parte anche della mia vita, non solo di quella della mia famiglia.

Suo nonno Elio Chinol, un anglista, traduttore shakespeariano, studioso di T.S. Eliot e sua nonna, però, si erano a loro volta negati la possibilità di esprimersi davvero tramite la scrittura.

Nonna non ne ha fatto una carriera come avrebbe voluto. A casa ho un pacco di racconti che scrisse e che ho ritrovato molti anni dopo. Prima o poi dovrò leggerli.

Pensa che la sua negazione sia stata in qualche modo ereditata da loro?

Implicata più che ereditata. Nel senso che ho sempre sentito di dover fare qualcosa per la mia famiglia, risarcirla… Il dramma della mia famiglia influenza anche la mia scrittura, che è sempre un po’ “tirata”, come se fosse strattonata. Karen Blixen, per parlare di sé, scriveva racconti ambientati un secolo prima. Adesso sono immersa nel presente e guardo al futuro ma, per molti anni, mi sono sentita fuori tempo, con il volto rivolto all’indietro.

È possibile che la domanda che pone Macbeth, “essere o agire?” nel suo caso avesse preso la forma di “scrivere o rappresentare?”

Può essere. Non ci avevo pensato. Oppure l’ho pensato e, poi, dimenticato. Mi accade molte volte (Ride). Ma credo anche che una visione manichea di questo tipo porti all’impasse. Il mio minuscolo apporto all’interpretazione di Lady Macbeth è che è vero che lei agisce, compie il male, si sporca le mani quanto lui. Ma si dà, comunque, la possibilità di andare avanti, di essere altro. Siamo destinati ad avverare il nostro ruolo nel mondo oppure il nostro destino si compie mano a mano che noi agiamo?

Temo che non troverà mai una risposta. Ma parliamo del titolo: La vita incauta. Quando lo ha scelto?

All’ultimo. Su suggerimento di Fabrizio Coscia, curatore della collana. Io pensavo di intitolarlo Unica mia accettabile durata che, per quanto sia un endecasillabo, sarebbe stato un po’ rischioso. La vita incauta, comunque, era già nel testo, estrapolato da un verso di Giovanni Raboni in cui riflette su quanto il bene e il male siano contigui.

Nella Vita incauta tra le tante cose che ricorda, c’è anche un suo incontro con un alieno ad Atlantide. Non un sogno, un incontro vero e proprio… Ne ha fatti altri di questo genere?

Sento delle contiguità con certi autori e, talvolta, è come se la loro vita o la vita dei loro personaggi mi invadesse. Forse perché come attrice mi sono lasciata “contaminare” parecchio. Una volta, facendo degli “esercizi” su Shelley mi è capitato di essere catapultata a villa Magni, la casa a Lerici dove ha vissuto gli ultimi mesi. Sentivo il mare, le voci dei bambini che giocavano, vedevo i raggi di sole attraversare le persiane. E percepivo disperazione, lutto. La nave era affondata e lui annegato, ma a Mary Shelley non era ancora arrivata la notizia, attendeva… Fu pazzesco, piansi per un giorno intero.

È sua invece la disperazione di cui racconta in alcune pagine per la malattia e la morte del suo gatto. Qual è il collegamento tra Macbeth e quel lutto?

Avevo cominciato a scrivere appunti su Macbeth e mi interrogavo sul perché questo personaggio così cupo esercitasse un fascino così profondo in me. Finché ho avuto due risposte. La prima è che questo personaggio ti mette di fronte a ciò che significa uccidere. In quegli stessi stessi giorni il mio gatto Elvis aveva cominciato a stare male e io ero terrorizzata all’idea di una separazione. Anche perché avevo legato la mia possibilità di durata alla sua vita, un legame carmico, simbolico.

Ma il rapporto con Macbeth?

Lui toglie la vita a persone che ama, al suo re, al compagno con il quale ha condiviso esperienze speciali come la possibilità di dare la morte ad altri, salvare la propria patria. E io ho dovuto decidere per l’eutanasia del mio gatto. Una scelta dolorosissima. Per un mese non mi sono mossa di casa, non sono andata a letto per stare con lui, spiare ogni suo respiro. Concepirmi senza di lui mi sembrava impossibile.

Su Whatsapp adesso ha una sua foto con un cane…

Teo, un giovanotto di due anni e mezzo. Il mio primo cane da adulta.

Il primo cane-bambino?

Esatto.