Può un sociologo illustre dare alle stampe un volume documentatissimo sull’universo in espansione delle MMA, le arti marziali miste, e trascurare del tutto l’aspetto fondamentale insito nella stessa parola “arti”?
Può. Il sociologo in questione è Alessandro Dal Lago e il volume è Sangue nell’ottagono appena uscito per il Mulino (18 euro).
Come da sua premessa, Dal Lago si veste per l’occasione da antropologo, investigando la cultura delle MMA più che la loro struttura sociale, ovvero si concentra sui simboli, le norme e i rituali di questo sport estremo e ormai globale, e quasi per nulla sugli aspetti legati al milieu dei suoi praticanti e degli appassionati.
Una scelta legittima e portata avanti con coerenza per 165 pagine ricche di esempi, citazioni e richiami che vanno dalle lotte dei pancraziasti dell’antica Grecia fino alla parabola fulminea di Ronda Rousey nella gabbia ottagonale passando per l’epica del pugilato degli albori e i morsi di Mike Tyson. Una scelta che evita la retorica vischiosa della rivalsa e dell’underdog e che è, quindi, un merito oltre che un metodo.
E però, sarà forse perché Dal Lago, per sua stessa reiterata ammissione, non ha mai praticato alcuna arte marziale né tanto meno uno sport da combattimento, nel leggerle, queste 165 pagine, sembra sempre che manchi qualcosa.
C’è una spiegazione tecnica piuttosto efficace di che cosa siano e di come si svolgano i combattimenti ibridi che mettono assieme tecniche di lotta, di pugilato e di boxe thailandese e che si sviluppano sia in piedi sia a terra con pugni, calci, gomitate, ginocchiate, leve articolari e strangolamenti; c’è una panoramica storica concisa ma esauriente delle moderne MMA dal 1993 a oggi; c’è, decisamente enfatizzato, l’aspetto dello show business coltivato con scientifico cinismo dai promoter migliori, ovviamente americani; ci sono anche interessanti riflessioni sul combattimento sportivo come surrogato della guerra in una società come quella americana in perenne mobilitazione, e svariati rimandi al cinema, ai fumetti giapponesi e alla letteratura. C’è anche una lodevole opposizione alle filosofie edificanti, e spesso d’accatto, che di frequente si accompagnano alla narrazione marziale a dispetto di molte evidenze.
Quello che non c’è, e che manca dolorosamente agli occhi di chiunque questi sport li abbia praticati con passione anche soltanto a livello amatoriale, è proprio l’aspetto dell’arte, nell’accezione latina di abilità, destrezza. Di mestiere, quello che gli artisti marziali, per l’appunto, affinano in migliaia di ore di allenamento matto e disperato, e totalizzante.
Sangue nell’ottagono ha diversi meriti ma questo limite, quello non solo di non riuscire – nemmeno cercare – di spiegare che cosa spinga questi uomini e queste donne a praticare uno sport che nella maggiore parte di casi paga poco ed esige un prezzo altissimo, ma soprattutto che cosa sia e come si manifesti la loro ossessione per l’eccellenza, se non proprio la perfezione, in una disciplina che ne racchiude in sé diverse, non semplicemente sommate l’una all’altra ma combinate secondo dinamiche e incastri precisi e complessi.
Di questi fighter, l’autore sottolinea a più riprese lo stoicismo, il coraggio, il machismo trasversale ai generi e l’ossessione per la vittoria e il guadagno, ma manca di cogliere quella tensione a volte maniacale al gesto perfetto, completo, cristallino che caratterizza il loro cimento. Quel gesto che si materializza in una combinazione di jab – destro al corpo – gancio sinistro – calcio destro al volto, oppure nella sequenza lottatoria di una proiezione al suolo seguita, in una coreografia poetica e violenta, da una leva istantanea al gomito. Oppure, ancora, in una schivata millimetrica col busto che si fonde quasi all’unisono con un gancio al fegato, un montante sotto al mento e una ginocchiata al costato.
Sangue nell’ottagono è, dunque, un eccellente compendio su che cosa siano le MMA moderne, su come siano nate e su come siano diventate uno sport globale da miliardi di dollari e capace di attirare a bordo gabbia stelle di Hollywood, politici, tycoon e intellettuali.
Ma è anche un’occasione persa – ancor più alla luce del dichiarato intento antropologico – di indagare l’origine di quell’afflato primordiale e inesorabile che spinge uomini e donne non solo a combattere per mestiere o per diletto, ma a coltivare una visione brutale e soave assieme, come soltanto l’arte può essere.