Le domande senza risposta dei familiari di Paolo Borsellino

Alla fine chiudi le pagine e pensi che l’innocenza non dovrebbe essere un tema trascurabile. Mai, in nessun contesto. Non la si dovrebbe relegare al ruolo di epifania, di eccezione, a un evento. E però: leggi di Piero Melati, Paolo Borsellino. Per amore della verità. Con le parole di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino (Sperling & Kupfer, 240 pp., euro 19.90) e scopri che sì, nell’immaginario collettivo, quella del giudice è una storia anti-eroica e miliare e che però ancora non può farsi conoscenza collettiva. Un’armonia perduta si rivela – è la nostalgia per lo stile di un giusto, malinconico e valoroso – ma la cronaca, ancora, non ha il senso della tradizione condivisa. Ecco, questo è il dato di partenza:

C’è un divario da colmare, una distanza vera, quando si parla del magistrato e dell’uomo Paolo Borsellino, ed è tutta in quel territorio misto ma sconosciuto, popolato solo di domande inevase, tutt’oggi inevase – in cui il giudice ebbe il coraggio (malgré lui) sensazionale di avventurarsi, in solitudine, dopo la morte dell’amico Giovanni Falcone.

E da solo perché il mondo si era capovolto, appunto l’innocenza si era fatta eccezione, questione di pochi, il Paese era diventato una preda. Del punto di approdo del lavoro di Paolo Borsellino, è opportuno ricordare, noi siamo tutt’ora all’oscuro. Non sappiamo in quale grado Stato, mafia e impresa restassero in affari, in Italia, nell’epoca sciagurata dei primi anni Novanta del ‘900 (e ancora prima). Era, probabilmente, fuori scala, non introiettabile nell’immaginario, la portata delle inchieste del pool antimafia di Palermo – dettaglio che si apprende da queste pagine e che non era noto: tornando dal suo ultimo viaggio a Roma, raccontando qualche particolare alla moglie, Paolo Borsellino vomitò, per nervosismo, forse per orrore.

C’è modo e modo di raccontare ogni cosa, a maggior ragione in un tempo di ricorrenza come quello di questi giorni. Nobile scrittore di territorio, dunque di vedute, di squarci e dettagli, di confini, di scrittori, di psicogeografia e di antropologia – sullo sfondo c’è sempre un’ossessione, la terra di Sicilia – l’autore di queste pagine ha scelto il pudore. Ha raccolto, in un grande lavoro giornalistico, le confidenze dei famigliari del magistrato, i Borsellino, che pure hanno conosciuto la propria sorte definitiva a via d’Amelio, trent’anni fa, e da allora è rimasto loro in dote solo un nervo scoperto, dolorosissimo, un rovello.

Hanno scelto di non tacere più, adesso. Anche recentissime sentenze lo hanno chiarito, come negarlo?, nessuno, ad oggi, è stato condannato come depistatore dopo i fatti di via d’Amelio. E però: il depistaggio sulla strage c’è, resta sul tavolo con la sua forza di evidenza. Si dirà nelle sedi opportune, nel trentennale?

Chi ha vestito il pupo – domanda la famiglia con l’autore di queste pagine -, il falso pentito Vincenzo Scarantino? Chi, una volta per tutte, ha trafugato l’agenda rossa del magistrato dopo che la sua cartella era nelle mani delle istituzioni, in seguito all’attentato? Chi ha agevolato una narrazione dei fatti parallela e dunque mai a contatto con la realtà? Che ruolo hanno avuto funzionari dello stato – promossi dopo la strage – che, nei confronti dei figli del giudice, hanno mostrato atteggiamenti addirittura intimidatori, dopo la sua morte?

Melati ricostruisce. Il quadro si fa preciso. Spiega verità per forza screziate, di quelle che danno fastidio, che escludono una pacificazione. Non cede alle retoriche. Scopriamo che Agnese Pirano Leto, la moglie di Paolo Borsellino, a più riprese ebbe paura per i figli dopo via d’Amelio. Che la famiglia era, probabilmente, spiata. Da vicino si racconta il percorso travagliato di Lucia Borsellino che, qualche tempo fa, scelse di impegnarsi nelle istituzioni, in politica, e ne ebbe in cambio una ferita che, nel segno che le ha lasciato, reca le ragioni di una condanna inappellabile. Si ascolta, in tutto il libro, la voce di Fiammetta. La figlia minore di Borsellino che le cronache, la fiction, avevano tenuto un po’ in disparte – ma oggi è lei il portavoce della famiglia. È lei – ed è una notizia che non si conosceva – a essere andata in carcere a incontrare i nemici mortali di suo padre (se ne può dire il poco, il pudore ha le sue esigenze).

Una foto scattata ai funerali di Paolo Borsellino. Al centro, la moglie Agnese con Antonino Caponnetto

Naturalmente poi c’è lui, il dottore Paolo Borsellino, come lo chiamavano i suoi collaboratori. E la sua vita complicata, funestata da amarezze, paradossi, lutti inconcepibili, tradimenti, non certo il percorso classico di un eroe alpha. Non certo il percorso di un numero due (il numero due di Giovanni Falcone, si diceva) ma quello di uno straordinario magistrato, preparato come nessun altro, che, insieme ai colleghi del pool, probabilmente arrivò vicino al sacrario maledetto da cui dipanavano fili impensabili, trame inesplorate di malaffare dell’Italian tabloid.

Questo dicono i fatti: egli riuscì, con il pool, nell’incredibile impresa, in tempi di pre-informatizzazione, a istruire un processo, il maxi di Palermo, che fece giurisprudenza, che dopo la chiusura con successo ottenuta in Cassazione, a inizio ’92, segnò sì l’inizio della fine di Cosa Nostra, così come l’abbiamo conosciuta a quel tempo – il prezzo, altissimo, furono le stragi violentissime come colpo di coda, il crollo di equilibri innominabili che gli costò la vita. Che cosa sia accaduto, dopo, resta nell’ombra.

Infine, solo infine, si può menzionare il primogenito di Paolo, Manfredi Borsellino. Per forza il più schivo, leggiamo, uomo delle istituzioni, poliziotto, forse sull’esempio del padre, disposto a un intervento di rottura in favore della sorella Lucia – è storia – solo nel momento della più estrema necessità, delle polemiche violente che la coinvolsero al tempo del lavoro da assessore.

Soprattutto, Manfredi Borsellino è stato l ’ultimo a salutare il padre, l’ultimo ad abbracciarlo prima della bomba. Tra le pagine più belle di questo libro, tra quelle che ti restano addosso, il racconto di quella passeggiata di pochi metri che lo vide insieme a suo papà – dal portone al cancello – della casa di Villagrazia di Carini, da dove Paolo Borsellino partì, l’ultima volta, per via D’Amelio. Se non è mai concesso di dire dell’amore tra un padre e un figlio, per pudore bisogna stare a una distanza siderale, di certo si può dire che in quel tragitto si è perso l’incanto di una giovane vita. E la perdita dell’innocenza è un prezzo altissimo, dovrebbe almeno meritare risposte. Nessuna chiacchiera.