L’eterna duplicità di Mauro Sambi

Si articola in cinque libri, suddivisi a propria volta in 18 sezioni complessive, frutto di un trentennio di ostinata applicazione all’opera di una vita, l’opus maior del poeta istroveneto Mauro Sambi, solo per accidens sottratto alle lettere come alla critica, a vantaggio della ricerca scientifica: Quel tanto nella voce. Poesie 1994-2020 (Ronzani, 2021, pp. 368, con una nota a margine di Matteo Vercesi e due lettere di Mauro Sambi e Luigi Bressan).

Titolo che deriva dal secondo movimento della lirica Poetiche (p. 267), ponendo un forte accento fin dall’inizio sulla componente meno tangibile dell’umano, e insieme più caratterizzante: la voce, appunto. 

In Sambi infatti convivono, non proprio pacificamente, due anime distinte: quella del rigore della sua disciplina (la chimica) che viene ad incrociarsi, fin dalla giovinezza, alla più genuina vocazione per le lettere e per la poesia, in un conflitto che forse ha trovato effettiva conciliazione proprio in questo libro, curato in ogni minimo dettaglio, della stessa solidità di un classico e da considerare, per inciso, quale la summa e il lascito di un’intera esistenza. 

Ad attestarlo in maniera incontrovertibile, l’esergo da Saba collocato in apertura di volume, motivo poi ribadito quasi all’esatta metà del libro con una dedica al Doppelgänger in sottotitolo a Diario d’inverno: “O mio cuore dal nascere in due scisso” (Saba, Preludio e fughe), per venire tematizzato in modo esplicito nell’ultima sezione: “Nella ridda di doppi che collutano / mortalmente in me, nella collisione / dolente di codici… / […] / c’è, alla radice, la vita già tutta / lasciata alle spalle, ogni decisione / sciupata, ogni via d’uscita distrutta” (Erma di Giano, p. 278). 

Una duplicità che si coniuga alla maniera platonica nella perenne ricerca del complemento di sé nell’altro, vale a dire nelle molteplici individualità cui Sambi destina le proprie affettuose dediche. Ovvero la moglie Maria Luisa (cui è riservata in apertura l’incantevole Senza uguali, p. 19) e i due amici più cari, terna che funge, in realtà, da motore immobile di un’intera poetica sulla scorta di Petrarca, di Shakespeare, e del Sereni de Gli strumenti umani; poi la madre, il padre, i figli, il poeta Bressan destinatario di una fondamentale lettera-manifesto e molti altri, a cominciare dal proprio lettore, indicati frequentemente soltanto con le iniziali. 

Ma anche, e soprattutto, essa si traduce in quella tensione alla ricongiunzione al divino che si respira in ogni suo verso e che rappresenta la radice e la fonte primaria di questo canto, in una rincorsa senza fine alla perfezione formale che tradisce tale sete di assoluto, come è confermato dal primo dei sottotitoli, ispirato alla Ballata del delirio di Pasolini, Indizi dell’ordine stupendo, senza mai peraltro eleggere a superno il contingente, a cominciare dalla scrittura stessa, e unicamente attraverso la mediazione di un amore umano, integralmente umano, meglio ancora se condotto ai limiti della sua finitezza e transitorietà: “La verità sarà sempre più in là / di questo inquieto ingabbiato ritessere / parole” (La verità sarà sempre, p. 33). 

A confermare che a questa poetica sia sottesa una visione profondamente religiosa della vita, ben lontana da ogni rassegnato o disperato scetticismo, valgono, nell’ordine, l’impeccabile sestina [Dal profondo   passato tanto tempo] (p. 273), il finale della versione da Walcott Oddjob, un bull terrier (p. 280) e la lirica Preghiera (p. 281): “Nel profondo del tempo la speranza /  protende rami brevi di betulla / vivifica il domani disseccato” ([Dal profondo   passato tanto tempo], p. 274).

Né andrà sottovalutata la presenza, collocate rispettivamente nel cuore della silloge e a chiusura della stessa, di un’intera sezione riservata a versioni da Shakespeare (Quaderno inglese) e di un’altra consacrata alla lingua del cuore, il dialetto istroveneto di Pola (De note).

Risulta evidente nei testi della quarta sezione Nulla che parli davvero la suggestione esercitata dallo Zanzotto dell’Ipersonetto ne Il galateo in bosco, soprattutto nella raffinatezza delle scelte lessicali o delle metafore, nei giochi linguistici, nell’ostinata fedeltà alla forma sonetto, nelle complessità sintattiche e nella soffusa ironia.

E tuttavia già in precedenza, come nello sviluppo dell’intera raccolta, si viene a definire con precisione una voce che non mantiene debiti con nessuno in particolare, benché sussistano affinità, anche pronunciate, con alcuni riconosciuti maestri del Novecento, in lingua come in dialetto, cioé a dire, oltre a Saba, Zanini, Marin, Giotti, Giudici, Bertolucci, Raboni, Caproni, Sereni, Fortini e Ripellino, piuttosto che Montale. 

E non è un dettaglio trascurabile che tutti, o quasi, appartengano alla linea più periferica e marginale della tradizione italiana o che alcuni fra loro siano collocabili all’interno, se non ai margini, della scuola veneta.

Ma, in ragione delle sue origini in una terra di mezzo qual è l’Istria, il respiro di Sambi non si adagia mai compiaciuto sulle glorie nazionali, per aprirsi senza posa agli stimoli provenienti da altre lingue e da altri maestri, con particolare attenzione all’inglese di Auden, Walcott, Stevens, Eliot o Joyce (con sovrapposizioni cronologiche e spaziali spiazzanti, ma coerenti con la poetica del “doppio”, nella resa in lingua del testo dell’irlandese Bahnhofstrasse, a p. 121, che chiude sulla seguente datazione: Zurigo, 1918 – Padova, 1998), oppure al tedesco di Hölderlin e Sebald, o a Brodskij, in parallelo – o in contrappunto – con la musica di Händel, Mozart e Britten, spesso in dialogo con questi versi la cui sostanza è quasi liquida quanto le due città del cuore che fanno loro da implicita cornice e da sfondo: la Venezia degli anni universitari, evocata nelle liriche della seconda sezione (L’alloro di Pound), e la Pola dell’infanzia come della tarda maturità che fa capolino nei testi in istroveneto, ma anche in Estate di settembre.

Alla forma di un diario di viaggio che nulla ha in comune col primo Ungaretti (semmai, con Sereni), Sambi affida il delicato compito di testimoniare una sola verità, con versi dall’afflato omerico/profetico che ne evocano altri dello stesso tenore di Pierluigi Cappello nel finale di Una lettura: “…crollano confuse le armate / del dolore. È un attimo. Tace l’eco / dei lupi che maciullano le pecore. // 24 Gennaio” (Chipping Norton, III, p. 218).

In altre parole, a fronte del mistero del male, il primato assoluto riconosciuto alla bellezza, alla musica e alla portata valoriale della poesia nella più convinta fedeltà alle sue forme chiuse quale unica possibilità di espressione sensata e salvifica: “Sarà così di te in questa scrittura / chiusa, di te che spezzi ogni armatura? / 8 febbraio” (Oxford, II, p. 225); e ancora: “Aiutami tu mio doppio – ti dico – mio specchio” (In fondo, III, p. 245).

Sarebbe però una mancanza chiudere questa nota di lettura senza almeno un cenno alla lettera, in risposta a Luigi Bressan, con cui Sambi si congeda dal lettore col fornirgli le chiavi di accesso indispensabili alla propria poetica, ovvero il profondo radicamento nelle origini istriane e, di conseguenza, nella lingua italiana come pure nella sua tradizione più illustre, il tema ricorrente del doppio, il rovello senza fine sul dilemma del tempo, l’amore viscerale per la musica e per le forme chiuse del verso.