Libri da vendere, libri da bruciare

L’ambizione è da verso di Bertolt Brecht. Perché Antonio Franchini, lettore di professione, per brevità editor, in Leggere possedere vendere bruciare (Marsilio, 2022, pp. 128), si ritaglia uno spazio e si racconta da personaggio di Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?: uno dei tanti invisibili delle pagine dei libri, tra muratori e cuochi, costruttori e schiavi, comuni mortali senza nome che la Storia non ha messo in risalto, ma che la Storia l’hanno fatta eccome.

Allenato a un esercizio perpetuo da ordine monastico – cinismo, immaterialità e rifiuto della prima tentazione della carne: cambiare un’opera – il suo mestiere è di “chi ha lavorato molto da vicino con gli scrittori, è l’ostetrica che sa come nascono i bambini“: labor limae, caccia ai refusi e consigli strutturali, tutto in vista del parto con la pubblicazione, quando il libro ormai è pronto per il mondo, o meglio per il mercato.

Eppure viene da chiedersi se nonostante questa applicazione continua di zelo, l’auto addestramento alla distanza e alla neutralità, sia sopravvissuta l’antica passione, quando un libro era pura evasione e piacere. Oppure quanto sia davvero realizzabile questa atarassia editoriale in cui la curatela non si confonde mai con la creazione, un po’ come si interrogano anche Maxwell Perkins (Colin Firth) e Thomas Wolfe (Jude Law) nel film Genius (2016) di Michael Grandage.

Come suggerito dal titolo, il libro di Antonio Franchini non si esaurisce in una sola dimensione: è saggio, racconto, satira, si presta con slancio alla formula di memoir professionale, segue con rigido calcolo e precisa meccanica da orologiaio l’evoluzione del rapporto con l’universo della lettura, senza lasciare mai che un’ombra sentimentale possa turbare l’analisi.

Da percorso a tappe, cambia punto di vista della narrazione, ruolo, linguaggio. Ogni stadio risponde esattamente alla parte che l’autore ha cucito per se stesso, preferendo sempre il margine al centro dell’azione. Da figlio osserva e commenta con il padre la relazione di possesso con l’oggetto libro, quella febbre di catalogazione schiava dei ratealisti, mania che apparterrà al genitore per tutta la vita, ma che gli permetterà da figlio di naufragare nella manualistica Einaudi – che per Edmondo Berselli concorrerà alla creazione egemonica del futuro mondo intellettuale e in parte al suo declino – e nei dizionari Utet. E proprio come in una scena di Natale in casa Cupiello, quando Eduardo intuisce il furto di Nennillo – “S’ha vennuto ‘e scarpe! Agge pacienza, Pasca’” – in Tonio Franchini ritroviamo uguale indulgenza mista al sorriso, ogni volta che ricorda i suoi libri venduti dal fratello mentre era in Russia: “fratemo s’è gghiette a vennere“. Un dispiacere che non si dimentica nel tempo ma che negli anni ha guadagnato comprensione e comicità.

E se la fase da studente universitario prepara all’età adulta, insegnando la distinzione tra l’utopia del mondo letterario e la realtà dell’accademia, il passaggio all’editoria è l’apprendistato alle regole dell’universo culturale, il ridimensionamento del gusto, un decalogo di comandamenti da avere sempre ben chiari, uno tra tutti: “Non crederete mica che un libro si venda perché è bello!“.

Eppure il personaggio di Franchini non persegue l’obbedienza squisitamente cattolica, in cui canonicamente foro interno ed esterno sono destinati a coincidere, ma si smarca in un esercizio di autonomia, come nell’episodio dell’intervista al Giornale dell’editoria: “Nessuno di questi era un bell’insegnamento, ma li accettai. Anche da giovane avevo un buon fondo di cinismo, però a me stesso dicevo che sì, accettavo, ma non del tutto“.

E come già Roberto Cotroneo nel romanzo Niente di personale (La Nave di Teseo, 2018) ha raccontato un tempo esaurito, così Franchini riporta in vita l’età dell’oro dell’editoria italiana, popolato da “soliti stronzi e venerati maestri” arbasiniani, una galleria di personaggi e caratteri così stra-ordinari, che difficilmente sarebbero sopravvissuti nell’habitat della contemporaneità.

Uno su tutti, “el gordoPietro Cheli, così vorace di lettura, cibo e scherzi telefonici, tanto sazio de Il mondo di Pannunzio e I Gettoni di Vittorini. Arrivano sulla pagina e si mostrano, come su un palcoscenico di rivista: il terrore di ogni editore, Alberto Bevilacqua, il fido vincitore di premi, Carlo Sgorlon, il provocatorio autore di Cazzi e canguri, Aldo Busi.

E se la vendita di libri per il suo successo ha bisogno di “eroi indegni“, salesmen come Procolo Falanga, gli anelli di congiunzione tra la distribuzione e i librai, che poco o niente sanno di letteratura, al contrario i libri per essere distrutti hanno bisogno di chi li conosca a fondo, gli intellettuali che ammoniscono: “Non ti illudere, non è facile bruciare i libri; non prendono fuoco così, non c’è solo la carta, ma le colle, le cuciture, le rilegature… Un libro è fatto di roba chimica e resistente, di inchiostri rimescolati nel torbido… I libri sono oggetti maledetti!“.

Allestendo due racconti con aspirazione di parabole, Franchini pone al lettore un interrogativo che avrebbe saputo ripetere solo Benedetto Casillo in Così parlò Bellavista: siete proprio sicuri che i libri siano distrutti da chi li vende e non da chi li conosce?

Tra le analisi dei successi dei bestseller contemporanei, “tempeste tropicali che allagano il terreno, lo sbancano e non lo fertilizzano”, lezioni di management e aneddoti difficilmente dimenticabili, Leggere possedere vendere bruciare è la descrizione del passaggio e processo autobiografico dall’egocentrismo del lettore all’ideale neutralità del funzionario, traccia l’orizzonte del mondo editoriale in tutte le sue fasi, lasciando il lettore con qualche interrogativo sempre sul confine – come da Emmanuel Carrère – tra confessione e manipolazione, perché si sa: “La storia dell’editoria è una materia labile, perché certo lascia tracce scritte, ma le questioni più complesse di solito vengono risolte a voce e tracce non ne lasciano, o se lo fanno si leggono in resoconti inaffidabili perché tale è la memoria degli uomini“.