“Nomina sunt consequentia rerum”? Mica sempre. Funziona anche nel senso opposto. Perché a volte dipende da come le nomini, e le cose cambiano, quantomeno nell’aspetto.
L’aspetto molto ha a che vedere con il tema dell’Age Pride, come Lidia Ravera – anno di nascita 1951 – intitola il suo ultimo libro.
Prima di approfondire il “pride”, però, è necessario chiarire la questione “age”. Come elenca l’autrice, che a metà dei suoi vent’anni pubblicò il Porci con le ali che la rese famosa, i modi per definire questa fascia anagrafica sono tanti.
Nessuno le piace. Over, silver, senior: niente da fare. Perché? “Non penso che l’uso dell’inglese ammorbidisca i preconcetti. Per intenderci: se pensi ‘zitella’ e dici ‘single’ io ti smaschero in due secondi. Se pensi anziana e dici silver, ci impiego anche meno”, va dritta al punto la Ravera.
Probabilmente per lei nemmeno funzionerebbe quella che al Teatro Franco Parenti, in occasione di una serata dedicata alla 88enne Ornella Vanoni, chiamano “grande età”.
Di persone famose arrivate al tempo del “dessert” la Vanoni – d’altra parte – è solo dei numerosi esempi, tanto più in un teatro popolato e recitato da numerosi artisti (Gabriele Lavia, Adriana Asti che a 92 anni ha appena perso il “giovin” marito 75enne Giorgio Ferrara, Umberto Orsini che salta su e giù dal palco con l’agilità che gli garantisce la dose quotidiana di jogging…) che la scena la calcano da oltre mezzo secolo.
Ma non è sulle eccezioni famose che – giustamente – si concentra Age Pride. È sulla norma che lo fa, o piuttosto: quella che oggi è una normalità ma che, fino a ieri, era un dato non pervenuto.
Sottolinea l’autrice, infatti, che questa è la prima generazione di vecchi. “Nel 1960 gli italiani ultrasessantacinquenni erano il 9 per cento della popolazione, oggi sono il 23 per cento… Oggi la vecchiaia è un fenomeno di massa”.
Un fenomeno a cui la società arriva impreparata. Così, anziché valorizzare l’età anziana, si cerca di camuffarla e se non è più giovani si raccomanda almeno di essere “giovaniformi”. Perché “siamo la prima generazione che lo vive, questo tempo lungo e inabitato”.
Ravera, però, non parla di quel 23 per cento in toto: è soprattutto alle donne che si rivolge. A quelle donne che negli anni Settanta leggevano Noi e il nostro corpo, imparando i segreti del piacere sessuale, esplorando i meandri dei corpi maschile e femminile, e che oggi “per quel corpo riconquistato e amato a vent’anni provano vergogna, una vergogna regressiva, conformista, subalterna”.
Costruito su pensieri che si inanellano e alternano a considerazioni, citazioni (da Cicerone a Simone de Beauvoir, da Shakespeare a Colette, con tanto Freud e soprattutto Jung) e dati autobiografici, Age Pride non è comunque la lezioncina di una maestra che spiega come comportarsi superati i 65, e anche prima, quando la menopausa inizia a rendere inutili e invisibili i corpi femminili.
Perché la Lidia che già prima dei 30 anni, con Ammazzare il tempo, aveva iniziato a interrogarsi sullo scorrere della vita è molto dura anche con se stessa. Con i propri crolli fisici e la vanità di quel continuo farsi “i conti in faccia”, ma pure con quelle aridità mentali che la fanno discorrere della paura di invecchiare con un’amica troppo malata per poter immaginare un futuro da vecchia.
E poi c’è la fase del “Pride”, la seconda metà del titolo. Che non è formula magica capace di annullare l’avanzare dell’età, i suoi acciacchi privati e lo stigma collettivo.
È, senza alcuna formula miracolistica, l’esortazione a non guardare solo dentro di sé (dove la “manutenzione ordinaria” e la prevenzione di guasti futuri rischia di occupare tutte le giornate), ma continuare ad allungare lo sguardo fuori.
Con l’orgoglio della pioniera che avanza su un territorio mai prima di questa generazione davvero esplorato, perché pochi ci arrivavano e quei pochi erano – a parte grandi eccezioni – comunque rimossi dalla società.
“La tua stessa diversità, il tuo inevitabile essere ‘inattuale’ sono fondamentali per ricostruire un’immagine leggibile del presente”, esorta Lidia Ravera.
Crederle non è così semplice, le scelte ospedaliere di vita e di morte in tempi di Covid o un film come il candidato agli Oscar Plan 75 ci ricordano in modi diversi come l’anziano sia pur sempre amabilmente sacrificabile.
Però, è giusto farlo: provare a impegnarsi perché la lotta fra generazioni diventi una convivenza arricchente per tutti. D’altra parte, anche ai più giovani toccherà.
Esiste solo un’alternativa, come diceva una signora in attesa del medico, ed è peggiore: non arrivarci mai, a esplorare quel terreno.