L’inconsistenza dei ricordi

55 milioni nel mondo, che in meno di un decennio si ipotizza diventeranno 78 milioni. 1,2 milioni in Italia: nel 2040 raddoppieranno. Sono le stime dell’Oms sulle persone affette da demenza. La maggior parte di queste demenze è Alzheimer conclamato.

La malattia prende il nome dal medico tedesco che – negli stessi anni in cui Freud pubblicava gli studi sui sogni e sull’isteria – per primo se ne occupò. A distanza di oltre 120 anni dalla prima diagnosi, oggi – sempre secondo l’Oms –l’Alzheimer rappresenta oggi la settima causa di morte nel mondo.

Quando un fenomeno è così rilevante, inevitabilmente diventa materia anche di spettacolo.

Nel caso di Ma tu chi sei di Bruno Arpaia, anche tema di romanzo.

Con alcune differenze fra le “arti”. Il cinema per esempio – da Still Alice a The Father, da Ella & John a Una giovinezza sconfinata in cui Pupi Avati faceva ammalare Fabrizio Bentivoglio – tratta di Alzheimer con un tocco spesso quasi “romantico”, dove la rappresentazione del dolore è affidata alle performance da grande attore per nomi di richiamo come Anthony Hopkins o Julianne Moore (interpretare il malato prende un po’ il posto che un tempo un tempo aveva recitare l’ubriacone).

Lo stesso vale per il teatro, dove un interprete come Alessandro Haber può dare così libero sfogo a tutta la propria esuberanza.

Le pagine di Arpaia sono tutt’altra esperienza. Lo sono in primo luogo perché l’autore che cosa significhi l’Alzheimer lo ha sperimentato davvero, sulla pelle e i neuroni di sua madre. E la conoscenza diretta toglie enfasi aumentando la sincerità del racconto.

Racconto in cui chiunque abbia avuto in qualche modo a che fare con la malattia – che in realtà colpisce soprattutto le donne, anche se le versioni spettacolari tendono a preferire protagonisti maschili, forse perché così possono affiancare loro compagne caritatevoli – si ritrova in ogni riga.

Arpaia spiega che quando scrive un libro il suo normalmente è un processo di “vestizione”: parte dalla materia nuda e man mano la agghinda nel corso della storia, creando situazioni e personaggi.

In questo caso, lo svolgimento è inverso. Lo scrittore, che è in primo luogo figlio, arriva davanti alla pagina vestito della propria vita, e progressivamente si toglie strato su strato, per porsi completamente spoglio davanti all’inconcepibile.

Inconcepibile che non non è solo amore per la madre. È paura personale e diretta, perché l’Alzheimer ha una componente genetica riconosciuta. E questo terrorizza, appena dimentichi episodi e persone della vita passata, subito ti chiedi: saranno i primi sintomi? Non è cinismo, è verità.

Come sono vere le descrizioni delle visite alla madre nella residenza in cui finalmente lui è riuscito a convincerla a entrare, oppure le telefonate quotidiane in cui il sentimento è sempre pericolosamente in bilico fra una sconfinata tenerezza e un’implacabile insofferenza. Quando per la ennesima volta ti senti chiedere che cosa hai mangiato o quando partirai, non ne puoi più.

Poi subentra il senso di colpa. Poi la domanda: quella donna è ancora mia madre?

Fra i momenti di questa nuova vita quotidiana, Ma tu chi sei indaga anche gli studi condotti sulla memoria. C’è il problema di chi non riesce a dimenticare niente di ciò che gli accade e ritiene  dolorosamente ogni minimo dettaglio: questione parallela e opposta all’Alzheimer, perché se non riesci a selezionare i ricordi, è come se ti trovassi imprigionato in una storia di Borges.

Per altro verso, sul fronte sempre degli impazzimenti neurologici, c’è invece chi cancella regolarmente la memoria dei fatti recenti, e questo gli impedisce di guardare avanti, perché – osserva l’autore – la facoltà di ricordare in realtà non è funzionale al nostro passato ma al nostro futuro, sapere ciò che ci è accaduto ieri è indispensabile per immaginare che cosa fare domani.

Racconta Arpaia nel libro che, dopo essere entrato nel gorgo sempre più avvolgente della malattia, a lungo è stato davanti a una pagina bianca perché incerto su cosa scrivere.

Aveva ipotizzato di dar seguito a Qualcosa, là fuori, bel romanzo del 2016 su un futuro climaticamente tragico e sulla fuga dalla sicccità, dove diventiamo noi migranti rifiutati alle frontiere: in anticipo sull’emergenza attuale, ma raccontato con il talento – che forse gli deriva anche da una sua storia professionale anche giornalistica – di coinvolgerti spontaneamente, senza troppi voli autoriali.

Pensava ad altre storie, ma nel frattempo viveva la propria. È a questa che alla fine ha voluto applicarsi, ragionando sulla madre e su stesso, sulla flebilità dei ricordi (tutti: ben lo sanno gli inquirenti che ascoltano i testimoni di un incidente, ognuno con una propria versione) e su che cosa ci fa dire “Io”.

Io: una identità che non procede per accumulo ma per scarti, traiettorie che ci allontanano da noi stessi, costruendo nuovi mondi. E questo ancora prima che l’identità venga inesorabilmente frantumata dalla malattia.