Lo sguardo selvaggio della trapezista nei ricordi di Sandro Baldoni

Apri un libro, lo cominci, leggi le sue parole. Chiudi un libro, lo hai finito: rivedi le sue immagini.

Se il libro ti ha toccato, la consistenza delle frasi e dei capitoli diventa flash, ricordo visivo, un film che si riannoda e torna a scorrere.

La prima immagine, nella soggettiva del piccolo Marco Primavera appena arrivato a Monteacuto, sono i ragazzini che masturbano un cane, e poi lo rifanno, e poi sghignazzano e si puliscono le mani sulle foglie di un fico. Segue la panoramica dei 152 scalini che ogni volta bisogna salire o scendere, in questo paese dell’Umbria abbarbicato sui monti e sui terremoti ciclici.

C’è il campo largo del capannone in fiamme a fondovalle, con l’odore delle galline bruciate e i sogni di papà in fumo. E c’è l’inquadratura della ragazzina dai capelli rossi che, contrariamente a quella di Charlie Brown, per un attimo si lascia amare, dopo che per giorni il protagonista, un Marco ormai adolescente, si è tappato gli occhi mentre lei volteggiava sul trapezio.

Sono della trapezista, di Leuba che si pronuncia Liuba, gli Occhi selvaggi del titolo. Ma gli occhi sono anche quelli con cui Sandro Baldoni guarda – e ne è riguardato – quel mondo. Un universo chiuso fra Appennini e strade torte, spesso non asfaltate negli anni Sessanta in cui si svolge la storia di formazione del giovane Primavera, cognome che promette futuri radiosi, dopo sofferenze e ghiacci non solo metaforici.

Baldoni nasce anche lui in Umbria, ad Assisi. Scrivere è la passione sua. Se capita – dice – lo fa pure sui muri. Solitamente però sceglie collocazioni più ortodosse.

All’inizio è stata la pubblicità, con quella campagna tante volte poi citata in tempi bui (speriamo che adesso qualcuno più realista del re non la rilegga in chiave anti Putin), per il quotidiano il manifesto: un bambino addormentato in culla con pugnino chiuso e la headline “La rivoluzione non russa”.

La campagna pubblicitaria di Baldoni per il manifesto

A questa forma di scrittura, commissionata ma anche aperta a incursioni creative (almeno negli anni Settanta-Ottanta), Sandro ha affiancato racconti per i giornali e quindi per il cinema, dove debutta nel 1994 come autore e regista di Strane storie, film a episodi che vince il Ciak d’oro e un Nastro d’argento.

Il cinema non è un mondo facile per chi vuole scrivere, ma lui prosegue con Consigli per gli acquisti e Italian Dream. Per poi passare a un altro genere di racconto – il documentario – con La botta grossa, ambientato nel dopo terremoto della sua terra d’origine, dove è sempre tornato e dove si trovava la casa di famiglia, che dà voce a chi ha perso case, animali, persone.

Con Occhi selvaggi adesso lo scrittore esce dalla forma breve, dello spot come del racconto, e si allunga al romanzo. Riuscendo a dar vita a un mondo corale, dove accanto al protagonista ognuno ha una propria identità, che siano i fratelli o il padre di Marco, gli amici o i tanti paesani caratterizzati nei nomi (Spartaco, Gesuino, Temistocle la sartina…) come nel tratteggio.

Con ironia e apparente distacco verso un mondo rimasto abbarbicato su quelle montagne e che “sembrava cristallizzato nel tempo”. Così cristallizzato che il ritorno in paese della sorella “sventolona in minigonna” e del fratello che per via dei capelli lunghi “mi sembravi una femmina” crea un certo scompiglio.

Ma in realtà il tempo non si ferma, Marco Primavera cresce, va a studiare a Terni e poi chissà, forse diventerà un uomo di cinema o di pubblicità, intanto si immagina in gita sulla Luna e non disdegna la prospettiva di Milano.

E finalmente: “Ora che sentivo che stavo per lasciarli, che la realtà mi avrebbe inevitabilmente portato lontano, sbiadiva la sensazione di perenne estraneità che mi aveva accompagnato fin da quando il destino aveva scaraventato la nostra famiglia in cima a quelle montagne”.

Monteacuto diventa il luogo dell’anima, cui ripenserà nelle nostalgie del futuro. Fermo immagine.