L’ozio come filosofia di vita (contro il “lavorismo”)

Stanford University, 12 giugno 2005. Il fondatore di Apple, Steve Jobs, pronuncia davanti a decine di studenti un discorso leggendario. Stay hungry, stay foolish“, siate affamati, siate folli, dice.

Questo motto che, in realtà, era tratto da una rivista pubblicata tra il 1968 e il 1972, diventerà la filosofia di vita per tutti coloro che cercano il successo nell’imprenditoria e nel mondo delle tecnologie.

Oggi campeggia su poster, magliette, sulle didascalie dei social network. Ma, quello che voleva essere un invito ad avere sempre voglia di imparare cose nuove senza avere pregiudizi, è diventato il simbolo di un modo di vivere la vita totalmente sbilanciato verso il lavoro e il successo, che hanno monopolizzato ogni aspetto delle nostre esistenze.

Se lavorare vuol dire soffrire

Il concetto di restare affamati manifesta, a ben vedere, una spinta performativa costante, volta a raggiungere il successo anche a costo di sacrificare la propria vita personale, le relazioni umane, il benessere emotivo, l’interesse verso gli altri e il pianeta“, spiegano i filosofi Andrea Colamedici e Maura Gancitano nel loro nuovo libro, il cui titolo, Ma chi me lo fa fare? (HarperCollins, 228 pag., 18,502 euro), è tutto un programma.

Fin dalla prima pagina, gli autori ci guidano attraverso un viaggio nelle distorsioni che il modo attuale di vivere il lavoro provoca nelle nostre vite e nella società. “Perché lavorare deve significare necessariamente soffrire?“, si chiedono.

E ancora: “Quando abbiamo cominciato a cedere gran parte della vita per poi essere troppo stanchi per godercene i frutti? Come facciamo ad accettare così tranquillamente che esista una mostruosa disparità economica nel mondo, che costringe alcune persone a dover faticare centinaia di ore al mese per stipendi da fame mentre altre possiedono patrimoni letteralmente inconcepibili?”.

Pagina dopo pagina prende forma l’assurdità di una vita vissuta ad ammalarsi con promesse di successo, denaro, carriera, in metropoli “che dietro al sorriso affabile dell’efficienza nascondono la giungla spietata del tutti contro tutti“.

L’utopia delle 15 ore di lavoro a settimana

Città dove viviamo completamente immersi nell’illusione di dare un senso alle nostre vite lavorando. Dove la parola “ozio” è stata dimenticata e persino le uscite con gli amici sono finalizzate ad ampliare la propria cerchia di conoscenze in vista del successo che tutti rincorrono.

E dire che, nel 1930, l’economista John Maynard Keynes aveva immaginato che nel XXI secolo avremmo avuto una settimana lavorativa di quindici ore. Oggi, invece, per un numero sempre più crescente di persone la vita, quella vera, occupa gli interstizi tra una sessione lavorativa e l’altra. “Il valore dell’individuo“, scrivono gli autori, “passa molto più che altrove dal monte ore che è capace di sobbarcarsi e dal livello di stanchezza che riesce a sostenere“.

Viviamo nella società del workism, il lavorismo, dove persone apparentemente felici dedicano molte più ore al lavoro rispetto a quelle per le quali sono state assunte e il lavoro diventa come una fede religiosa, un’ossessione per dare un senso alla vita.

Peccato che la stragrande maggioranza dei lavori non garantisce la realizzazione personale e quella che ci circonda è solo una narrazione tossica che non fa altro che produrre ansia e depressione in chi si colpevolizza perché non riesce a “santificare la propria opera lavorativa.

Meglio diventare mostri arrabbiati

Ma allora, perché continuare? Perché non provare a cambiare le cose? Potremmo iniziare, per esempio, sostituendo il motto “Stay hungry, stay foolish” con “Stay angry, stay ghoulish“, letteralmente “Siate arrabbiati, siate orribili.

Ci pare più in linea con i tempi attuali e con la situazione sociale e politica del mondo“, scrivono gli autori, “da una parte la rabbia è un’emozione potente e necessaria, che può essere utilizzata come forza motrice per cambiare le cose e lottare contro l’ingiustizia e l’oppressione; dall’altra il macabro, l’orrendo, il mostruoso, lo scarto sono esattamente i punti da cui ripartire per sfuggire alla trappola performativa… Il nostro è un invito provocatorio a onorare il mostruoso che abita ciascuno di noi, a sfidare le norme sociali e a non avere paura di fare cose che potrebbero essere considerate mostruose o sconvenienti“.

E allora via libera a una diserzione dal lavoro, dal consumo, dalla competizione e dalla performance. Il che non significa smettere di lavorare, ma dire no alle logiche lavoriste che ci spingono a credere che le cose non possano che essere così.

Nel nome dell’ozio

Imparare a oziare, a meditare, a impiegare il nostro tempo senza l’ansia di averne qualcosa in cambio. Infine, dedicare le ore recuperate dal lavoro per dedicarci alla vita politica, alla partecipazione, alla gestione collettiva, reinventando lo spazio pubblico.

Usiamo la crisi climatica, il rischio di estinzione, le pandemie e tutte le future conseguenze della nostra pessima e irresponsabile impronta ecologica per ribaltare i concetti con cui pensiamo a noi stessi e al mondo. Lavoriamo, sì, ma per prenderci cura dello spazio che condividiamo“, scrivono gli autori, “partecipiamo insieme al gioco più bello che abbiamo saputo inventare: la politica, arte della cura e del conflitto“.