L’uomo senza qualità di Ian McEwan

Due donne che abbandonano i figli, entrambe strettamente legate al protagonista: non è poco in un solo romanzo.

L’autore – Ian McEwan – d’altra parte sui rapporti con i genitori ha tante volte costruito appassionante dolore.

Se parti con una storia capace di roderti dentro come Bambini nel tempo, se poi procedi con i ragazzini vittime (ma solo fino a un certo punto…) di un padre ossessivo e di una madre atonica come nel Giardino di cemento, se ti inerpichi a interrogarti sul diritto alla vita contrapposto a quello all’autodeterminazione di un ragazzo vittima forse del lavaggio del cervello dai genitori (La ballata di Adam Henry): allora, che c’è di così terribile in una mamma che rinuncia al figlio in nome di un bene maggiore?

Ci sarebbe certo da discutere sul concetto di questo bene. Se mamma Rosalind che molla non uno ma tre pargoli in mani altrui lo abbia fatto per proteggere loro dalle maldicenze degli anni Quaranta o se stessa dalla pubblica messa al bando. Se la moglie Alissa che se ne va a far qualcosa di unico e di grande lasciando (per sempre: non lo vedrà mai più) baby Lawrence a Roland abbia avuto davvero una ragione superiore e se la sua scelta, in nome del sacro fuoco della scrittura, sia stata se non etica quantomeno ragionevole.

Negli 80 anni della vita di Roland, il protagonista del romanzo di McEwan, che nasce a inizio anni Quaranta e arriva al dopo lockdown, queste sono domande fondamentali. Ma la bellezza della risposta è che alla fine contraddice il titolo del libro, Lezioni.

Le prime lezioni come quelle della maestra, che al ragazzino in college insegna il piano, per poi sedurlo, molestarlo e portarselo a casa con l’obiettivo folle di sposarlo.

Ma queste lezioni sono solo le pagine iniziali della sua vita. La prima delle diverse svolte che Roland, più osservatore che attore del mondo, affronterà nel corso degli anni. Non sono vere e proprie sliding doors, ma scelte in qualche modo passive che – come nelle vite comuni – si inanellano una dopo l’altra.

In parallelo alla sua storia di uomo senza studi né risorse, con tanti talenti e nessun vero dono, si svolge la Storia del suo Paese e dell’Europa, il dopoguerra, la Thatcher, il Muro di Berlino, la Brexit.

E i lunghi dibattiti al tavolo della cucina su quello che avviene, le pensioni misere, il welfare progressivamente taglieggiato, il Covid affrontato dal governo inglese nel peggiore dei modi.

Storie di vita, ma non lezioni. Perché non importa se da una certa età in poi decidi di annotare tutto ciò che ti succede: alla fine, tanto vale fare un falò di tutti quei diari.

E se la donna che ti ha abbandonato diventa una scrittrice celeberrima, tutta quella sua fama che senso ha nel momento in cui – rivedendoti in punto di fine – ti dice che tu sei l’unico uomo che ha amato, mentre tu hai avuto una vita sentimentale e affettiva infinitamente più ricca, e adesso hai una nipotina che ti prende per mano?

Ian McEwan ha 74 anni, l’età della resa dei conti è lì, anche se uno scrittore probabilmente quei conteggi li fa da sempre, davanti alla pagina che sta per scrivere.

E lì ci porta a empatizzare con il suo Roland, il cui giro vita è ormai inguardabile, che vive al limite delle risorse disponibili, butta via man mano gli oggetti che affastellano la casa (prima o poi, una nonna, un vecchio zio, una madre: tutti a un certo punto, preparandosi alla morte, decidono di fare pulizia e ordine fra le cose).

Roland, che nella vita ha fatto tante cose, dal pianista di piano bar al maestro di tennis, ma che in nessuna di queste ha mai eccelso, nonostante il roseo avvenire che gli veniva predetto da ragazzino.

Roland, però, che una cosa l’ha fatta bene, senza forse accorgersene: vivere. E questa (al singolare: il plurale minimizzerebbe) è la vera Lezione.