Giovanna De Angelis, una delle più originali e talentuose voci dell’Italianistica contemporanea, dopo un’esistenza trascorsa tra manuali dedicati alla narrativa e alla poesia del Novecento, saggi appassionati e rigorosi in cui ricostruì il rapporto fra donne e Olocausto e numerose collaborazioni editoriali, un giorno si svegliò e decise che era tempo di scrivere un romanzo. Uno suo, finalmente, dopo anni a compulsare quelli altrui. Italiani e stranieri. Romanzi scavati e squadernati in ogni riga per aprire scrigni di poetica e messaggi cifrati.
Gli autori grandi nascondono fra le sillabe e i paragrafi, in apparenza trasparenti, codici misterici ed enigmi concettuali. Gli scrittori provocano e chiamano dal regno dei morti o celandosi nelle torri d’avorio dei viventi che praticano lo strano culto delle Lettere.
I romanzieri urlano per essere ascoltati e sciolti al mondo, per diventare corpo senza contorni e vaso di Pandora dove convivono aedi e mendicanti, donne fatali e servette astute. I romanzi erano un’opera aperta e in continuo divenire per Giovanna, ma ci sono albe e luoghi e istanti fatali che decidono per te.
Chiudi le pagine dei cari amici di inchiostro e ti guardi allo specchio. Ripensi a Paolo di Tarso e chissà perché ti viene in mente il suo monito. Ora vediamo enigmi come attraverso uno specchio, poi su tutto si alzerà il velo. Adesso no, però. Romanzieri e poeti devono risolvere indovinelli, mentre la sabbia nella clessidra lieve scende.
Giovanna ha i suoi, di enigmi. Decenni al servizio dei giochi di parole di autorevoli colleghi, ma l’urgenza di raccontare di sé prende il sopravvento. Un racconto lungo o un memoriale? Breve romanzo, molto meglio. La protagonista ha un nome antico, Francesca. Forse è Giovanna, in parte no. Attraversate lo specchio e saprete, lettori cari.
La frattura è uscito postumo, circa un anno dopo la morte dell’autrice, che saluta compagno, figli, devoti amici e colleghi di penna nel mezzo dell’inverno del suo e nostro scontento: il 14 gennaio 2013 scende all’Ade, stroncata in pochi mesi da una patologia ematica fulminante.
Il morbo l’aggredisce alla fine dell’estate precedente con sintomi banali – afte che non guariscono, dolori alle gengive, una ghiandola gonfia e strani piccoli lividi – che non sottovaluta ma a cui, come tutti, non vuole dare eccessivo peso perché di colpo interferiscono con giornate intense di corse e di vita dei bambini piccoli e di scadenze del lavoro che ama, all’ombra di una Roma decadente e sempre vittoriosa su morbi e mortalità.
Dev’essere dura accettare diagnosi brutali durante un tramonto bevuto dalle terrazze sul Campidoglio o mentre scivoli in bici sul ponte Milvio. Giovanna continua a scrivere, a leggere e a passeggiare a Villa Borghese, a litigare su una virgola fuori posto o una ridondanza concettuale che lei, raffinatissima esegeta e filologa di testi degli ultimi due secoli, scova senza pietà.
Non fa sconti, a se stessa in primis e tantomeno a coloro che con lei compulsano libri e da lei imparano. E molto. Nemmeno la malattia fa sconti e come incarognita falange oplitica sbaraglia uno dopo l’altro i soldati nascosti in boli di chemioterapia, cicli di radiazioni e dolorosi prelievi lombari a cui Giovanna si sottopone senza chiedere l’anestesia.
Tutto affronta, tutto sopporta tranne la nauseante retorica del guerriero, con la lucida consapevolezza che la vita è un’Iliade dopo l’altra e tanto vale scendere in campo, con le armi che ti danno e che si trovano. A volte sei Ettore, altre Paride. A tratti soccombi subito e non ti capaciti dei figli che attendono a casa chi non torna, a volte porti a casa una piccola vittoria e ti mangi una pizza nonostante i conati di vomito.
Giovanna è minuta e le ossa fanno male, tanto male. Fino all’ultimo si cura e legge e chiosa versi e ride, di sé e della beffa suprema, che non si aspettava ma che sta colonizzando le cellule del suo fragile corpo. Mente d’acciaio e vene che presto diventano cave. Di sangue e di vigore.
Morirà durante l’ennesimo ricovero d’urgenza, a causa di una sepsi fulminante, conseguenza delle violente terapie e del tentativo di differire ciò che forse, in quella strana mattina di agosto, già aveva annunciato la propria cupa epifania.
Fa in tempo a scrivere un romanzo, dove la protagonista racconta di una vita borghese e tranquilla, resa opaca da abitudini e affetti che dà per acquisiti. Cosimo è un marito solido ma senza guizzi, c’è una madre distante che non ha mai tempo davvero per Francesca ma a modo suo la ama e la scuote. Entra in scena un amante incontrato per caso: un giovane uomo egoista e un filo trombone che da subito si pavoneggia in modi che disturbano la quieta ricerca di attenzioni da parte di Francesca. Però dispensa abbracci che la donna aveva dimenticato; insieme consumano frettolosi rapporti che sembrano passione ma forse è l’immaginazione della protagonista a renderli tali.
La solita vecchia storia: “i ragazzi che si amano”, per dirla con Prévert, a qualsiasi età si dimenticano del mondo e contorcono in scatenati amplessi. Tutta vita, pare. Ma uno dei due prima o poi si stanca: per Diego era un gioco, per Francesca erano progetti o svolte inedite, chissà. La malattia irrompe all’improvviso nella vita della donna come un terzo incomodo, un dispettoso Iago che avvelena gli umori e dissemina dubbi e sospetti.
Diego si allontana, annoiato dai lamenti di lei, dalla sua dipendenza emotiva. Infastidito dalla paura che trasuda da Francesca, incalzata dalla signora di Samarra. Protocolli, farmaci velenosi forse salvifici e Day Hospital, effetti collaterali e rabbia repressa. Incredulità. Rimangono accanto alla protagonista il marito e la madre, pochi altri. Diego si eclissa, un copione prevedibile, Francesca non è un’ingenua ragazzina e millenni di letteratura dovrebbero averla preparata. Invece no.
Si rompe qualcosa dentro di lei, si rompe tutto: emoglobina e cellule, sistema immunitario e pensieri. Si incrina il futuro ma la frattura più immedicabile è quella della sua dignità. L’orgoglio ferito e i sentimenti umiliati portano a volte a inattese catastrofi. La donna coltiva in sé Fedra e Deianira. Deve agire e ferire a sua volta, massacrare. Come l’infelice compagna di Ercole ma con la ferocia di una stravolta Medea si arma e parte per l’impresa. Nessuno spargimento di sangue, nessun delitto, le priorità sono altre. Lasciare segni duraturi, però, su oggetti, case e cose. Selezionare ciò che è caro a Diego e risparmiare il resto.
La moglie e i figli dell’amante non hanno colpe, sono forse altrettante vittime inconsapevoli della mediocrità dell’uomo. Francesca sceglie e colpisce. Deianira ha la sua piccola vendetta triste, da borghese esasperata in una casa borghese con oggetti altrettanto prevedibili. Le “buone cose” di pessimo o elegante gusto, cambia poco, incontrano l’Orco prima dei loro umani. Mentre spazio e tempo implodono insieme alla clessidra ormai svuotata. E così sia.