Madelaine Napolitaine

È domenica.

Sono in fila.

Prima di me ci sono almeno tre persone, l’ultima delle quali è una signora con un’elegante mantellina rossa e un microcane che le orbita intorno come un satellite.

Nell’attesa, la minuscola parodia di cane fiuta nervosamente l’aria puntando i dolci che si mostrano dal bancone, prima di acquietarsi istantaneamente, vinto e acciambellato, sul pavimento.

Io, dopo essermi accorto che sono rimasti solo due cannoli (a fronte dei troppi spasimanti che mi precedono e ci dividono), vivo la smania dell’amante che aspetta e freme, consumato dal ritardo e dai dubbi. D’altronde, quando penso al desiderio, mi viene sempre in mente il fiato che si raccoglie e spreca sulla vetrina di una pasticceria. Certo, c’è pure il sesso, che però solitamente irrompe e impone la sua presenza a prescindere, anche se si parla di criogenesi o coltivazione a maggese.

Intanto, sarà il profumo della signora che sa troppo di pulito, quasi asettico, da sacchetti di lavanda abbandonati in un armadio tra la biancheria di un vecchio corredo dimenticato; oppure il rosso da corrida della mantellina che la sua schiena continua ad agitarmi davanti agli occhi; ma, in un attimo, la slavina dei ricordi mi sorprende e rivedo la bandiera del Partito sulla bara di mio nonno, lasciata dai compagni della sezione al suo funerale.

Nell’osservazione dei fatti, dopo essere inciampati nella crepa che li ha generati, capita spesso di imbattersi in un “prima” e un “dopo”; e la stessa organizzazione del tempo, per come siamo abituati a frequentarlo, è impostata proprio a partire da questo scarto: un Avanti e Dopo la nascita di un bambino piuttosto importante, che portava in sé l’annuncio di una morte (la sua) altrettanto significativa, giunta dopo trentatré giri di giostra, come un Lp, un concept album nato quando Tim Rice incontra Andrew Lloyd Webber e insieme scrivono dei pezzi tuttora in voga (dal Vangelo secondo Rino Gaetano).

La morte di mio nonno, quando avevo tredici anni, è la frattura – tra le altre che mi appartengono – che ha dato vita a uno dei tanti prima e dopo che mi hanno segnato, certificando la fine della domenica vissuta come rito pranzando a casa sua al Cavone.

Il Cavone, più che una strada, è una ferita da taglio che attraversa Napoli. Lunga e profonda, si snoda sotto quell’unica striscia di cielo che una folla di vecchie case concede allo sguardo, mentre si ammucchiano aggrappandosi le une alle altre, tenute insieme da fili carichi di panni stesi che ingioiellano il vuoto e, come cime di porto lanciate per dare attracco ai palazzi, sembrano tenerle in piedi quasi per scommessa. Da quell’arteria principale, come capillari che irrorano di sangue vivo anche le zone dove il sole è uno sconosciuto, lungo la sua discesa torrentizia partono decine di vicoli laterali, in cui ci sono ancora case, incastrate ad altre case, e poi ad altre ancora: vite che forzatamente si affacciano in quelle degli altri, esaurendosi in una manciata di metri dove ogni angolo è un mondo finito che contiene infiniti mondi.

In uno di quelli, al primo piano di un palazzo, è cresciuto mio padre, che una volta sposato aveva costruito la sua vita altrove, trasferendosi nella parte collinare della città. Per provare ad azzerare quella distanza, la domenica divenne cerimonia, ci reclamava, e già dalle parole utilizzate per tradurre quello spostamento c’era qualcosa che suggeriva altro. Infatti, raggiungere il Cavone lasciando la casa del Figlio per quella del Padre, non era un semplice “andare a”, ma “scendere giù” (abbasc’ ‘o Cavone), o più frequentemente, un “andare dentro” (dint’ ‘o Cavone). In quelle espressioni non c’era solo il bisogno di localizzare con precisione un luogo, ma l’urgenza di raccontare un percorso che prima di tutto era interiore, un’immersione, con la consapevolezza che ciò che conta di più – e ha un peso specifico maggiore – è proprio in profondità che silenziosamente si deposita.

Ed è per questo che, per certi ritorni, c’è bisogno di affondare.

In quei momenti, osservare mio padre che ritrovava memoria e familiarità in quei posti dove era nato, per me significava riconoscerne tracce e radici, e in un processo che mi emozionava ogni volta, specchiarmi in lui. Poi, abituato a vivere in un quartiere decisamente più borghese, muovermi in quelle strade mi insegnava a confrontarmi con una realtà completamente diversa, a volte anche feroce, che mi educava attraverso gli occhi alla complessità e alla sua comprensione. Per cui, da bambino ormai assuefatto a un panorama da terzo piano (quello di casa mia mi restituiva il golfo incorniciato dal mare e dal vulcano), scoprivo esistenze che al primo piano neanche ci arrivavano, perché si consumavano nei “bassi”, in un rapporto osmotico dove dentro e fuori non esistevano più e tutto diventava strada.

Ma quando casa è grande come un morso e sono troppe le bocche che la abitano, allora la strada diventa benedizione e bestemmia, sfogo e sole di piazza in cui le vite si precipitano mostrandosi continuamente a tutti, senza più pudore.

Del resto, dove addirittura l’aria è contingentata, anche il pudore finisce per occupare uno spazio prezioso.
E allora diventa qualcosa di cui si può fare a meno.

Sulla soglia di uno di quei bassi, ricordo di essermi perso nel deserto dello sguardo di un uomo che, da una sedia, restava a guardia di qualcosa che solo lui sembrava intuire. Aveva circa quarant’anni ed era come spezzato in due, con il busto montato malamente su gambe secche, piccole, atrofizzate. E soprattutto immobili.

Quando decisi di chiedere a mio padre cosa gli fosse successo, lui prima raccolse un po’ di silenzio, poi poggiandomi la mano dietro la nuca, mi disse semplicemente la verità, al netto di qualsiasi tipo di spiegazione.

«Gli hanno sparato. Anni fa gli hanno sparato nelle gambe», e io, a partire da quel giorno, col tempo cominciai a capire. Capii che a volte è più difficile decidere, e che se sei costretto a vivere dove anche l’aria è un privilegio, con la strada che ti entra in casa senza chiedere permesso, allora c’è la possibilità concreta che quella stessa strada ti faccia male, come i cazzotti raccontati da Artemio Altidori sotto un sole amaro ne I Mostri di Dino Risi.

Ripensandoci oggi, più della risposta di mio padre, ad aiutarmi a comprendere credo siano state quella manciata di silenzio che la precedette e la sensazione della sua mano addosso, che sembrava dire: “Succede, succede anche questo, e tu lo devi sapere, anche se sei al sicuro e guardi il mondo dal terzo piano”. Forse, mentre mi tranquillizzava, la presa sicura di quella mano che il lavoro in fabbrica gli spaccava, segnandogli il palmo con tagli più o meno profondi che ricordavano la strada e i vicoli dove era nato, esprimeva anche il suo bisogno di ancorarsi – attraverso me – al lato della vita.

Poco più in là viveva mio nonno, a quel primo piano dove ci si illudeva che la strada non potesse entrare, o perlomeno, non senza la mediazione di un panariello calato dal balcone.

In realtà, per me casa cominciava prima, all’inizio del vicolo, annunciata dall’odore del cibo che, mentre correvo sulle scale, mi costringeva ad aumentare, insieme alla frequenza dei passi, anche la salivazione. Poi, una volta dentro, mi precipitavo in cucina, dove mia zia (la sorella di mio padre) governava il ragù dalla sera prima. Anche lei abitava al Cavone (abbasce/dinte), e da quando mio nonno era rimasto solo, per occuparsi di lui aveva frequentato quella casa più della sua, trasformando la vecchia cucina di una casa popolare in un tempio.

Eppure, se tutta la domenica ruotava intorno al pranzo che lei preparava, mio nonno con la sua sola presenza lo incarnava. Ai miei occhi appariva enorme, con una pancia che a stento le camicie larghe riuscivano a contenere e due mani grosse, da gigante, in cui la fede che ancora portava al dito si era inglobata, al punto che anche volendo, non sarebbe riuscito a sfilarla. Più dell’amore e della nostalgia, ci pensò il “mangiare” a conservare memoria del matrimonio vincendo sul lutto.

La sua fame non aveva nulla di fisico, ma traduceva uno stato emotivo e spirituale, un’attitudine anima-le, quella di chi aveva conosciuto la guerra, l’occupazione, il mercato nero; e quando mangiavamo, se capitava che noi nipoti ci attardassimo sul piatto, ripeteva: “A tavola si combatte con la morte”.

E lo diceva masticando.

Di tutte le cose che si dicevano durante quei pranzi, questa è la frase che mi è rimasta più impressa, come il finale di un’omelia in quelle che erano messe laiche recitate intorno a una tavola, dove alla fine il Corpo di Cristo arrivava sotto forma di ziti al ragù o manfredi con la ricotta.

Eppure, di quelle domeniche non conservo solo i sapori e i profumi del cibo, ma anche le tante istantanee di un tempo in cui sembrava che ci si potesse aggrappare alla vita prendendola a morsi.

Mio nonno che non mangiava mai meno di due piatti di pasta, probabilmente perché era stato informato dell’imminente scoppio di una guerra che, solo per educazione, aspettava la fine del pranzo.

Un’autoradio con vecchie cassette Stereo 8 dei miei cugini più grandi.

Il pane caldo comprato per strada, dai cofani aperti delle macchine, come sigarette di contrabbando.

I ditali e il gesso da sarto (con un disegno di forbici in rilievo) lasciati in giro per casa da mio zio, che oltre a fare il postino, tagliava e cuciva finché il tempo e l’abilità delle mani gliel’hanno concesso.

La pentola del ragù lasciata incustodita in cucina, in attesa della cerimonia dei piatti, e io che strappo il pane cafone con le mani per raccogliere la parte più densa e “arruscata” del sugo dal bordo, percorrendo lentamente la sommità del cratere a un centimetro dalla lava.

Il gusto di quel sugo, reso ancora più buono dall’eccitazione del furto.

La televisione accesa solo per seguire gli aggiornamenti delle partite di campionato.

Mio nonno, innamorato del ciclismo, piazzato con la sedia davanti alla tv per guardare il Giro d’Italia, e quando comincia la salita di una tappa di montagna, si sporge leggermente in avanti, aerodinamicamente pronto allo sforzo, e poi comincia a muovere le gambe a tempo, come se stesse spingendo anche lui sui pedali.

La carta igienica, che quando finiva, veniva sostituita da giornali o riviste con una linea editoriale decisamente più dura.

La zia di mio padre, con gli svariati nomi che indossava (Rituccia ‘e Cuzzetiello, dal suo amore per il culo del pane; o Mammella, perché non avendo avuto figli, aveva aiutato a crescere quelli delle sorelle) e quella sua lingua straordinaria e naïf, che aveva un conto aperto con le consonant, con la quale mi chiamava “Piccolo Gremìch” (Piccolo Gramsci), in onore dei miei ottimi voti scolastici, oltre che della fede politica di mio nonno e mio padre.

 

In tutte quelle ore passate insieme, ogni cosa – compresa la vita di ognuno con i resti delle inevitabili macerie personali e familiari – sembrava indossare il vestito della festa e si abbandonava a un’euforia contagiosa. Ma c’era un momento preciso, tutte le volte, in cui il pomeriggio si faceva autunno del giorno, e anche in quel tempo cristallizzato la domenica mostrava i segni della fine.

Succedeva sempre intorno alle diciotto, quando partiva la sigla di 90° Minuto e arrivavano i dolci a tavola (la guantiera con le paste). Era come se, con le partite, gli arbitri avessero il potere di mettere fine anche al giorno di Dio con un triplice fischio. E mentre Paolo Valenti dallo studio dava linea ai vari inviati, noi dal soggiorno, tra caffè con prese d’anice e dolci, restituivamo la linea allo studio e mettevamo il punto alla giornata.

Una volta in macchina, riemergevamo dal Cavone e tornavamo a casa affrontando il traffico della sera. A volte però, nonostante la giornata fosse ufficialmente conclusa, poteva capitare che qualcos’altro rimanesse addosso, come spiccioli dimenticati in tasca e portati in giro per giorni.

Un po’ di quell’euforia restava in circolo, con ostinazione, e non si rassegnava ai pensieri che cominciavano a smarrire leggerezza e annunciavano già il lunedì, il lavoro, la scuola e la fine della tregua da carnevale concessa dalla domenica.

Così, anche se il pranzo durato ore a volte ci faceva addirittura decidere di non cenare, succedeva che mio padre decidesse di fermarsi ad una friggitoria lungo il tragitto e di mangiare per strada un cartoccio di zeppole e panzarotti.

Cento lire al pezzo, questo l’obolo da lasciare per dichiarare con unta fierezza: “La domenica non è finita e neanche la messa. Non siamo ancora pronti per andare in pace”. Bastava pochissimo, la trasgressione di una frittura, per compiere un atto di ribellione che sicuramente Napoli, per sua stessa natura, era più disposta a sostenere. Laddove si sente dire: “A Napoli mangiate sempre…”, come uno sberleffo, io ho sempre interpretato: “A Napoli, in qualche modo, si riesce sempre a mangiare”, anche se hai poco, e quel poco che hai lo tieni stretto in mani da spiccioli; e il detto “Tanto tieni, tanto vali”, così classista nel definire le persone in base al reddito o al privilegio sociale, si combatte a colpi di crocchè di patate o di acqua, farina e lievito.

È la realizzazione concreta della democrazia della pasta cresciuta, alla portata di tutti, anche di quelli che vivono in case dove la strada entra di prepotenza, portando i suoi colpi senza nessun riguardo.

Con la pancia piena almeno riesci a dormire e, all’occorrenza, puoi difenderti anche meglio, soprattutto se ti è concessa la possibilità di scegliere come farlo.

A tavola si combatte con…

La morte di mio nonno, alla fine, si è presa la domenica.

Se Dio, al termine  della creazione, scelse il settimo giorno per riposarsi, mio nonno andandosene ci rese orfani di quel giorno. Venendo meno la forza centripeta della sua presenza, ogni famiglia, semplicemente, è andata avanti, assecondando l’inerzia delle vite di ognuno.

Per quanto mi riguarda, associo la sua morte alla fine dell’infanzia e all’accelerazione improvvisa e violentissima che ne prese il posto: liceo, università, l’amore, il trasferimento a Roma e un’eclissi di luna rossa durante la quale è arrivata mia figlia.

In quella casa, dove poi si era trasferita definitivamente mia zia, non ci sono quasi più tornato. È stata completamente ristrutturata, arredata con mobili nuovi, rivissuta, ma quelle pochissime volte che mi è capitato di andarci, non mi era mai sembrata così vecchia e prossima al crollo. Per me era ormai impossibile non associare quelle stanze ad un’aria di morte, dopo aver visto a tredici anni il corpo di mio nonno su un letto, rivestito e rassettato in un pigiama nuovo, senza più fame, tristemente sazio di vita.

E dopo di lui, più recentemente, mio zio: nella stessa stanza, nello stesso letto, lo stesso grande sonno.

La stessa famigliare tristezza.

Quando mi hanno detto che la situazione di mia zia si era aggravata, ho deciso subito di partire. Sapevo che era malata da tempo, ma non conoscevo con precisione le sue condizioni, né quanto fosse irrimediabilmente peggiorata.

Così da Roma sono sceso a Napoli (abbasce), per immergermi di nuovo nel Cavone (dinte), in quella casa dove ormai ci si riuniva solo per dirsi addio.

Dopo la morte di mio padre, a cui con amore era stata vicina fino alla fine, nonostante gli affanni dell’età e una salute già precaria, lei era rimasta l’ultima traccia che potevo ancora seguire per riconoscermi in una storia cominciata ormai un secolo prima, all’inizio del Novecento, e che ora, divenuto padre a mia volta, mi riportava per l’ultima volta nella casa del padre di mio padre.

Rivederla dopo tanti anni, significava ritrovare un legame che era anche fisico, quasi carnale, come la sensazione che ci lasciava addosso il cibo che amorevolmente preparava per tutti noi. Sul suo viso, infatti, forse ancora più dei miei genitori, potevo rintracciare i segni dell’appartenenza, come la mappa comune dei nei e l’asimmetria del sorriso che condividevamo con mio padre.

Quando entrai nella stanza, sempre la stessa con lo stesso letto che, come un buco nero, sembrava essersi sostituita per forza attrattiva alla figura in vita di mio nonno, non mi riconobbe. L’incoscienza del delirio, segno della fine che ormai la braccava, era tutto ciò che riusciva ad esprimere, insieme ad un respiro in tumulto che solo ogni tanto si abbandonava, prima di ricominciare, ad una tregua senza pace.

Intorno a noi, le foto esposte in un ordine da vetrina tracciavano una linea chiara, dove prima e dopo erano definiti cromaticamente. Da una parte, in bianco e nero, quelle di chi si era ormai congedato da tempo; dall’altro, a colori, le foto di chi è arrivato dopo, in particolare i nipoti: rami carichi di foglie e promesse di vita.

Io, trovando un’ulteriore conferma al mio essere ancora totalmente immerso nel secolo scorso (se non addirittura un uomo dell’800), ovviamente conoscevo solo i morti.

Come è giusto che sia, i vivi di fresco appartenevano a un’altra storia.

Mentre silenzioso e inutile rimanevo vicino al letto di mia zia, fissavo le sue mani e l’aritmia nervosa con la quale tormentava la coperta; quelle stesse mani, così esperte nel dispensare cure e attenzioni durante quelle domeniche di comunione generale, che da sempre custodivano la tradizione culinaria della mia famiglia.

«Che spreco», pensai con un moto d’affetto e riconoscenza   «tutto questo sapere, che il tempo ha contribuito ad alimentare e perfezionare, andrà perduto». Anche se negli anni aveva provveduto ad insegnare o comunicare a molti (compresa mia madre) i segreti della sua cucina, restava il fatto che lei era la matrice, la sorgente di quella conoscenza che vedevo spegnersi ad ogni respiro. Ricordo che in particolare questa sua vocazione si esprimeva in prossimità della Pasqua, quando cominciava a generare pastiere (le più buone tra i vari mondi conosciuti e sconosciuti) e casatielli in numero esorbitante, che poi distribuiva tra i vari componenti della famiglia.

Le coperte di quel letto che la accoglievano e raccoglievano per l’ultima volta, durante la preparazione dei casatielli offrivano riparo agli impasti, perché col calore il lievito li facesse crescere, gonfiare, prendere aria.

Prendere aria.

Prendere aria.

E allora ho capito, come successe a dieci anni con la mano di mio padre che mi comunicava una consapevolezza silenziosa.

Mentre la guardavo respirare e consumarsi in quel letto, ho capito.

Per caritatevole accondiscendenza verso il nostro dolore, la morte ci inganna, lo ha sempre fatto. Non c’è nessuno che spira, nessuna “ultima esalazione”, ma solo fame d’aria, feroce, un disperato raccogliere, ingoiare, trattenere, prima dell’ultimo respiro, il più importante, che prepara l’apnea in vista dell’immersione. È così che la morte diventa un altro modo di restare, un durare che si dilata, oltre la vita, oltre la fine sancita burocraticamente dal novantesimo minuto, quando invece ci sono sempre una manciata di secondi che vengono giocati, e in cui si possono risolvere esistenze come fossero partite.

È un punto che non chiude la storia, ma rimanda a capo, ad una frase pensata e non scritta. Il dispetto di chi nasconde briciole d’euforia nelle tasche, rivendicando nel morso ad occhi chiusi su una pasta cresciuta un tempo altro, indefinito, in cui la domenica finisce perennemente, mentre mio nonno, davanti alla tv, si alza sui pedali e aspetta una salita. Per sempre.

Ma forse sono anche io, che dopo aver salutato mia zia (il giorno dopo sarebbe morta) e prima di affrontare il viaggio che mi avrebbe riportato a casa, in una dimensione temporale in cui non esistono prima e dopo ma solo “durante”, decisi di portarmi via dei dolci da Napoli.

Perché i Romani avranno anche costruito un impero immenso, ma di tutta quella grandezza è rimasto solo il maritozzo con la panna.

Finalmente sta per arrivare il mio turno.

La signora con la mantellina (rossa come la bandiera su una bara piena di ragù) si prepara ad andare via con il suo vassoio di piccola pasticceria in cui, con ogni probabilità, hanno incartato anche il suo cane mignon.

Io, nell’attesa, ho lasciato lievitare i pensieri, che insieme alle parole sono le viti che tengono in piedi il mondo, o i fili dei panni stesi che sostengono case ormai fradicie di umidità e memoria.

Alla fine, i cannoli li hanno risparmiati e me li faccio prendere.

Mi sento come Clemenza nel Padrino, dopo che ha fatto uccidere Paulie.

“A pistola lasciala. Pigliami i cannoli”.

Davanti alla morte, ho scelto la dolcezza della vita.