“C’è un posto nel mondo / dove il cuore batte forte”. Quel posto sono le braccia di una madre, nella poesia di Alda Merini. Ma le braccia non sempre accolgono, il loro amore può essere duro come pietra.
E non è un caso che, mentre gli autori – a partire da Jacopone da Todi salendo fino a Pasolini – usano toni per lo più lirici nel raccontare la figura materna, siano spesso le scrittrici a esplorarne anfratti oscuri e talvolta odiosi. Ne sa qualcosa la Elena Ferrante dell’Amore molesto e anche quella dell’Amica geniale, con donne che paiono ostinatamente incapaci di accogliere le istanze di vita delle figlie.
Ne sa Giulia Caminito, che ha nuotato fra incomprensioni e scontri nell’Acqua del lago non è mai dolce, finalista allo Strega 2021.
Nella cinquina di quella finale si trovava (con Borgo Sud, storia di sorellanza e non di maternità) un’altra scrittrice che la “madre-matrigna” l’ha raccontata più volte: Donatella Di Pietrantonio.
L’autrice abruzzese il tema lo ha affrontato con L’Arminuta, vincitore del Campiello 2017 che l’ha resa popolare, e con quella sua ragazzina che per ben due volte subisce il rifiuto da parte della figura materna. Il tema però le deve stare particolarmente a cuore.
Infatti, già nel suo primo libro del 2011, adesso ripubblicato da Einaudi, era questo il centro della narrazione. Il romanzo si intitola Mia madre è un fiume (l’acqua, come conferma il lago della Caminito, è sempre elemento fondamentale nel raccontare una donna), e si inerpica nelle terre abruzzesi, nei silenzi dell’anziana Esperia Viola, nei tentativi della figlia di ricostruire – con la storia della famiglia – un rapporto fallito.
Sulla difficoltà della relazione madre-figlia si innesta in più il tema della memoria che fugge. Demenza senile o Alzheimer, è un argomento sempre più presente, nella vita come nel cinema (Anthony Hopkins l’anno scorso ci ha vinto un Oscar, con The Father – Nulla è come sembra).
Ma mentre la madre si chiude nella dimenticanza, per la figlia – narratrice in prima persona – è diverso. “Il nostro amore è andato storto, da subito (…) Lei mi amava, ma aveva altro da fare. Lavorava, per sua figlia. Non venivo prima nei suoi pensieri e non l’ho sopportato”.
Figura di sfondo che ambisce al primo piano, la donna procede a ritroso lungo le generazioni di questa famiglia cresciuta nell’Abruzzo contadino. Dove la durezza della terra e del lavoro – resa con analoga asprezza di linguaggio – motiva la disattenzione di Esperia.
Per comprendere, e quindi perdonare, però non basta sapere. La scorza coriacea della madre ha lasciato il segno nei sentimenti della figlia, che pure si è affrancata da quel mondo ed è diventata architetta, ha avuto un figlio, si è separata dal marito che aveva sposato come puro escamotage di fuga.
Come scrive la Di Pietrantonio: “Certe volte la odio (…) Non riesco a usarle dolcezza, non la tocco mai (…) Non mi avvicino, se ci provo sento la forza che si oppone quando accosti i poli dello stesso segno di due calamite. Non l’ho superata. Non le ho perdonato niente. Aspettavo di regolare i conti con lei quando mi è sfuggita nella malattia. Fremevo di rabbia, quasi fosse un dispetto”.
D’altra parte, è proprio questa una delle terribili conseguenze dell’Alzheimer: non solo smarrire la persona, ritratta in un mondo “altro”, ma rendere impossibile ogni confronto, perdere l’occasione di fare i conti con il passato.
Eppure, quando non i conti, si può tirare almeno la pasta. Quella pasta che la figlia non ha mai voluto imparare a fare ma che poi, nella malattia della madre, apre la possibilità di una imprevista vicinanza. La cucina, la preparazione del cibo, le verdure scelte nell’orto sono così la possibilità di un dialogo senza parole fra le due donne. La natura riscopre le proprie ragioni.
E a partire dal titolo e lungo le pagine è la stessa Esperia che si trasforma in elemento naturale: “Mia madre è un fiume. Erano un fiume i suoi capelli scuri e sottili. È un fiume in secca. Mia madre era un albero. Ho avuto la sua ombra. Mia madre era una piccola farfalla. È stata il principio di tutti i miei desideri, la madre di ogni solitudine”.