Il situazionismo è vivo e lotta contro la pazzia delle folle. Tra il 2017 e il 2018 Peter Boghossian – docente di filosofia all’università di Portland, dove si occupa di scetticismo scientifico e metodo socratico – propose ad alcune riviste accademiche americane una serie di articoli, dal linguaggio contorto e criptico, finalizzati alla decostruzione degli schemi culturali oppressivi della società occidentale. Il primo si intitolava Il pene concettuale come costruzione sociale e invitava a vedere l’organo sessuale maschile «non come organo anatomico ma come costrutto sociale altamente fluido che attua il genere»; un altro aveva un titolo tanto più assurdo, Reazioni umane alla cultura dello stupro e alla performatività queer nei parchi urbani per cani a Portland, Oregon, da sembrare un apocrifo patafisico del dottor Faustroll di Jarry; un terzo era addirittura un capolavoro di dadaismo applicato, spacciando un collage di citazioni dal Mein Kampf ed estratti da teorie di giustizia sociale per un manifesto filosofico intitolato La nostra lotta è la mia lotta. In tutti e tre i casi gli articoli furono accettati e pubblicati in qualità di contributi accademici utili all’analisi di quel costrutto sociale oppressivo chiamato genere.
L’intento di Boghossian era di dimostrare che nell’ambito delle scienze sociali ormai tutto fa brodo purché si sostengano ipotesi sempre più ideologizzate e prive di conferme scientifiche, le quali – a furia di essere presentate come nuove conquiste del progresso umano, legittimate dalla vidimazione accademica e comunicate con un lessico capziosamente incomprensibile come nei libri di Judith Butler e degli altri teorici che considerano il genere soltanto una prestazione sociale – sono entrate a far parte dell’agenda politica progressista, costituendone i nuovi pilastri. Intendiamoci, è sempre un segno di salute per il pluralismo quando nuove ipotesi critiche scompigliano le nostre presunte certezze allo scopo di perfezionare il godimento dei diritti umani; è molto meno salutare quando invece questo scompiglio si impone come una nuova incontrovertibile verità antropologica, poggiando la propria forza pervasiva su un linguaggio magico e sulla volontà emotiva di «abbattere qualunque cosa fosse precedentemente apparsa una solida certezza, certezze biologiche incluse».
Il virgolettato è tratto da La pazzia delle folle. Genere, razza, identità (Neri Pozza, 2020), eletto libro dell’anno dal Times. Il suo autore è il giornalista britannico Douglas Murray, quello che si potrebbe definire un conservatore liberale, ma che è anche un omosessuale da sempre impegnato attivamente nel dibattito sui diritti, uno che insomma può permettersi di sferrare una critica così diretta alla folle disgregazione sociale promossa inconsapevolmente da certe ideologie dell’uguaglianza, senza rischiare di essere delegittimato in quanto non appartenente alle categorie interessate.
Con una lucidità critica quasi liberatoria in questi tempi di omertoso conformismo, Murray ci offre una visita guidata nel manicomio postmoderno cominciando dalle sue fondamenta filosofiche. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta in molti ambienti accademici il pensiero filosofico di autori come Gilles Deleuze e Michel Foucault diventò egemonico; la loro lezione invitava l’uomo occidentale a sgualcire il tessuto sociale che la cultura di riferimento gli cuciva addosso interpretando tutte le relazioni umane, se non l’esistenza umana tutta, come espressioni di potere. Era soltanto il prologo al postmoderno, con gli angeli di Lyotard che sarebbero arrivati presto ad annunciare la fine delle grandi narrazioni, delle ideologie, delle metafisiche, insomma di tutte quelle costruzioni culturali che – mediando con la natura, con gli istinti basici umani – avevano orientato l’uomo nella realtà, fornendogli una bussola; ora quella bussola si era rivelata oppressiva ancorché falsa, perciò le grandi narrazioni andavano disintegrate in vista dell’avvento di un regno plurale senza narrazioni dominanti, senza più superstizioni culturali, dove la verità sarebbe stata solo uno tra i mille frammenti discorsivi, aprendo finalmente al pluralismo, alla tolleranza, alla diversificazione.
Bene: è andata esattamente nel modo opposto. Una volta distrutte le narrazioni e le metafisiche ereditate dal passato, la società occidentale anziché aprirsi a uno scetticismo critico pluralista, ha sostituito le vecchie narrazioni con le nuove, rinchiuso il pensiero in ulteriori dogmi, creato metafisiche laiche e civili.
Secondo Murray una di queste nuove metafisiche si chiama intersezionalità, ossia un dispositivo ideologico circolato prima in ambito accademico e poi sottoforma di istanza politica, secondo cui tutte le discriminazioni avrebbero una matrice comune: il maschio bianco cisgender. Praticamente il maschio (che ha oppresso le donne nel sistema patriarcale), l’uomo bianco (che ha oppresso i neri con lo schiavismo), l’eterosessuale (che ha vituperato le sessualità alternative alla propria) sarebbero la stessa persona, o meglio la personificazione di un unico disegno oppressivo. Tesi affascinante, di primo acchito; poi uno ci riflette ed è un po’ come sostenere che la matrice dell’antisemitismo – un fenomeno avente radici storiche ben precedenti alla Germania nazista e ben più complesse e intrecciate – abbia un solo responsabile, il maschio chiaro mitteleuropeo, per cui l’attuale portiere della nazionale di calcio tedesca, Manuel Neuer, avrebbe la stessa responsabilità morale di Hermann Göring nella persecuzione degli ebrei.
Si tratta chiaramente di un invasamento ideologico e Murray ne sviscera ogni dogma, primo tra tutti quello delle politiche identitarie che si stanno rapidamente imponendo fuori dagli ambienti accademici grazie ai social, alle multinazionali e alle aziende di marketing che applicano i nuovi filtri dell’intersezionalità alla realtà squalificando ogni obiezione (e ce ne sarebbero di scientificamente argomentate) attraverso la sistematica attivazione di gogne pubbliche morali.
In questo senso attualmente il dogma più caldo è quello di identità di genere, un concetto se non totalmente mendace quantomeno fumoso da qualsiasi prospettiva lo si guardi. Dal punto di vista sociologico, per esempio, l’identità di genere nega la sociologia del corpo, fondando un modello antropologico e giuridico (che come ogni modello è una costruzione, al pari di quelle che si propone di abbattere) incentrato sull’atomizzazione individualistica. Se Fichte avesse potuto parlare con le parole del marchese del Grillo, lo avrebbe probabilmente sintetizzato così: il mio io è tutto e il resto del mondo non conta un cazzo. È esattamente quello che i Monty Python in una loro scorrettissima gag nel film Brian di Nazareth definiscono «battaglia contro la realtà», essendo la realtà – lo scrissero Luckmann e Berger in un classico della sociologia – al tempo stesso un’entità oggettiva e una costruzione sociale intersoggettiva, grazie alla quale gli esseri umani riescono a orientarsi, comunicare e comprendersi sulla base di un senso comune.
Nel concetto di identità di genere viene meno proprio il senso comune, la coerenza tra quello che una persona comunica soggettivamente e quello che appare oggettivamente. Detto terra terra: il nostro io è intimo ma il nostro corpo non è isolato dal resto del mondo; è un oggetto sociale la cui esistenza non è determinata soltanto dall’autopercezione ma esiste anche perché è percepito esternamente. È grazie a questa dialettica basata su categorie condivise ed esattamente identificabili perché fenotipiche (maschio e femmina, nero e bianco) o intellegibili (l’orientamento religioso, l’orientamento sessuale, l’appartenenza etnico-culturale) che la nostra società, tramite il diritto, pone le sue fondamenta a garanzia del rispetto della diversità e delle minoranze.
Per Murray, quindi, la teoria tanto in voga secondo cui maschi e femmine nascano identici tranne che per i genitali, mentre tutte le altre differenze sarebbero affare di prestazioni sociali, è una teoria che cancella ideologicamente tutto un bagaglio di conoscenze acquisite. Basta leggere cosa scrive da anni Steven Pinker– scienziato cognitivo ad Harvard, illuminista irriducibile e ateo militante, dunque persona al di sopra di ogni sospetto – sulle differenze di struttura cerebrale tra maschi e femmine, di conformazione corporale e ormonale, e persino di funzionamento mentale come la teoria della mente, notoriamente più sviluppata nel cervello femminile da cui le generalizzazioni, non del tutto infondate, che le donne siano più sensibili e dolcemente complicate mentre gli uomini più inclini al menefreghismo. Ma se non si vuole considerare attendibile Steven Pinker perché è un uomo bianco eterosessuale, si può sempre ripiegare su Margaret Mead, l’antropologa che per prima introdusse il concetto di genere come costruzione sociale, riconoscendo però al contempo l’insopprimibilità delle differenze biologiche tra maschile e femminile che confluiscono proprio in differenti tratti di genere. E se pure Margaret Mead dovesse suscitare qualche sospetto in quanto autrice superata per l’attuale ondata femminista, allora resta sempre la scrittrice Jan Morris, nata maschio col nome di James, quando in Enigma racconta la propria esperienza di vita dopo l’operazione effettuata a Casablanca presso il dottor Burou, descrivendo come gli estrogeni assunti avessero femminilizzato tanto la propria pelle, diventata più liscia, quanto la propria emotività, al punto da modificarne addirittura i gusti letterari.
Leggendo Pinker, Mead e Morris si capisce non solo quanto i sessi siano diversi, ma quanto lo sia anche il rispettivo modo di viverli, una ricchezza duale di cui paradossalmente il concetto di fluidità di genere fa piazza pulita. Affermare questo non significa in alcun modo avallare forme di discriminazione; significa semplicemente evitare che, analogamente a un passato in cui le differenze tra uomo e donna giustificavano le discriminazioni, oggi per emendare quel passato si proceda alla cancellazione di ogni differenza biologica, psicologica e archetipica in un deliquio schizofrenico e disumanizzante che confonde l’uguaglianza con l’omologazione o, per usare la metafora informatica di Murray, le questioni di hardware con questioni di software, nella convinzione di essere «in grado di riprogrammare sempre e comunque i nostri specifici biologici».
L’incapacità del mondo postmoderno di garantire diritti senza cadere nel dogmatismo moralista edifica un manicomio di ipocrisie, schizofrenie e precetti che Murray denuda nella loro essenza assurdista. Per esempio, ogni giorno ci ripetiamo che le donne sono uguali agli uomini – dunque né peggiori né migliori, dunque con uguali possibilità di corrompere ed essere corrotte – e tuttavia Christine Lagarde non perde occasione di ricordarci che «se ci fossero state le Lemhan Sisters anziché i Lehman Brothers, oggi il mondo potrebbe apparire molto diverso», come se il vero potere non fosse l’impersonale Leviatano della finanza speculativa bensì la mascolinità che lo presiede; ancora, quando l’imprenditore omosessuale Peter Thiel appoggia pubblicamente Donald Trump, gli attivisti LGBT lo diseredano, dichiarando che per loro Thiel non è più gay sotto il profilo identitario ma, al limite, soltanto da quello meramente sessuale.
Strano mondo plurale, in effetti, quello in cui se sei gay e la pensi in maniera non gradita alla tua supposta tribù di appartenenza, gay non hai più diritto di esserlo. È lo stesso mondo dove una delle più importanti femministe americane, Germaine Greer, viene accusata di misoginia e transfobia per aver sessualizzato la condizione dei transgender, che per il pensiero intersezionale è identitaria per dogma; dove la color blindness di Martin Luther King, ossia l’auspicio che il colore della pelle diventi un aspetto talmente marginale dell’individuo al punto da passare inosservato, viene considerata un’idea razzista in quelle numerose università che promuovono i whitness studies «per problematizzare la bianchitudine»; dove una questione scientificamente opaca quale l’autodeterminazione del genere è presentata come fosse la cosa meno problematica del mondo, però poi se la bianca Rachel Dolezal si autoproclama nera perché si sente nera, partono gli anatemi indignati degli attivisti: nel caso della pelle, e solo in quel caso, la biologia può e deve avere la meglio sull’autodeterminazione.
Si tratta, in definitiva, di un mondo monomaniaco e bipolare, convinto che il disaccordo sia oppressione e la discussione un pericolo per la democrazia, individuando oppressori e oppressi in base al nuovo paradigma perfettamente fallibile dell’intersezionalità. Ma, viene da chiedersi, siamo proprio sicuri che un maschio bianco eterosessuale nato in una famiglia operaia di un paesino periferico sia privilegiato sempre e comunque rispetto a una donna, un nero, un gay o anche un transessuale cresciuti in una famiglia della ricca ed emancipata borghesia metropolitana? Siamo proprio sicuri che questo nuovo paradigma, su cui vigilano le grandi multinazionali della comunicazione come Google, Facebook e Twitter coi loro test sui pregiudizi e i loro interventi censori dall’alto di un’autorità supereroica, preannunci davvero una nuova alba per la giustizia sociale? Come aveva già capito quarant’anni fa Ivan Illich, pensatore eretico e attualissimo che oggi in pochi leggono, la scomparsa della dualità simbolica del genere è il grande processo avviato dalla società industriale nel momento della sua nascita, e ha per meta la trasformazione delle differenze di genere in neutri economici. Scrive Murray: «pur se le aziende sono riuscite a incrementare la mobilità delle donne e la mobilità delle minoranze etniche, il loro livello di mobilità di classe non è mai stato così basso. Tutto ciò che sono riusciti a fare è costruire una nuova gerarchia».
L’aspetto drammatico non è tanto che a legittimare questo avvicendamento gerarchico puramente nominale siano le sinistre occidentali; il vero dramma è che la controcultura a questo capolavoro del pensiero egemonico la debba fare il libro di un conservatore dichiaratamente anti-marxista. Un ulteriore segno del manicomio postmoderno in cui ci stiamo rinchiudendo.