Mario Monicelli (e compagnia) secondo Chiara Rapaccini

Ci sono diversi modi di leggere il libro di Chiara Rapaccini, Mio amato Belzebù. L’amara Dolce vita con Monicelli e compagnia. La più scontata, come un racconto della sua lunga relazione con il regista Mario Monicelli, 40 anni più di lei, conosciuto a Firenze, la città di nascita di Chiara, mentre lui era lì a girare Amici miei. Una relazione che sarebbe durata – nonostante le case separate degli ultimi anni – dal 1978 fino alla morte di Monicelli, a 95 anni, nel 2010.

Poi c’è la “versione” suggerita dalla stessa Rapaccini che, va ricordato, col nome d’arte Rap è un’artista e illustratrice nota, autrice tra le altre cose della serie di vignette Amori sfigati e che, spiega, ha voluto scrivere un libro “per le donne che si danno da fare per non essere sempre dietro a un maschio. Racconto Monicelli, la fine della Dolce vita romana, ma anche la mia lotta per affermare me stessa”.

Infine, ma non perché sia meno importante, il libro, come del resto dichiarato nel sottotitolo, è un resoconto del mondo del cinema romano degli anni Settanta e Ottanta, un’intera generazione di registi e sceneggiatori che i copioni li discuteva a tavola nelle trattorie o a casa di questo e di quell’altro con davanti un piatto di maccheroni. Condito con abbondante salsa di pomodoro e ore di chiacchiere e supercazzole.

Una “banda” di geniacci ma anche cinici, brutali nella loro onestà: “Erano tutte persone che parlavano fuori dai denti”, per i quali il ricorso al “vaffa” era frequente e innocuo come una forma di punteggiatura.

L’aiuto regista ideale

Tanto per capire, partiamo proprio da un capolavoro di cinismo, ovvero il dialogo tra il “giovane” Ettore Scola (16 anni di meno) e Monicelli, avvenuto in qualche trattoria romana (perché “noi altri del cinema si finiva sempre a mangiare”) che Rapaccini riporta. Tema della conversazione: “Come deve essere l’aiuto regista ideale”. Svolgimento:

Mario: “Deve essere puntuale”.

Ettore: “Svelto”.

Mario: “Colto”.

Ettore: “In buona salute”.

Mario: “Contento anche e soprattutto se mal pagato”.

Ettore: “Fortunato”.

Mario: “Cioè?”.

Ettore: “Non deve rompersi una gamba, bucare la gomma della moto, rimanere imbottigliato nel traffico, badare a un bambino che vomita…”.

Mario: “Già… e la nonna all’ospedale, la mamma che muore”.

La supercazzola

In un altro capitolo, Rapaccini ci apre le porte all’officina della scrittura di alcuni dei film più riusciti di Monicelli. In particolare di Speriamo che sia femmina, il “film più femminista di quegli anni” diretto dall’uomo “più maschilista del mondo”.

Suso Cecchi D’Amico, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e lo stesso Monicelli sono a casa del regista, all’epoca bloccato su una sedia con una gamba ingessata. Rapaccini se ne sta in disparte, ma l’appartamento è piccolo e non può fare a meno di sentirli parlare per tutto il pomeriggio di qualunque cosa meno che del film: “Gossip perlopiù, storie di corna e inganni, politica. Il cibo in tutte le sue varianti – ricette, ingredienti, racconti di cene malfatte e di cuochi inetti (…) Il povero Tognazzi è il bersaglio preferito per il suo hobby maniacale di cucinare male per gli amici che disprezzano i suoi manicaretti”.

Passano le ore, fuori fa buio, si decide di ordinare qualche pizza. Ed ecco che, all’improvviso, quando ormai la giornata sembrava finita, comincia il lavoro. Il gruppetto si fa serio e comincia a discutere. Di dialoghi e scene così dettagliate che “mi sembrava di vederle”, ricorda Rapaccini. E aggiunge: Suso Cecchi lo diceva sempre che “gli sceneggiatori scrivono con gli occhi”.

I rigatoni al sugo di Laura Betti

Una donna imponente, eccessiva, invadente. È questo il ritratto di Laura Betti che emerge dalle pagine del libro.

Rapaccini rievoca una delle tante serate in cui l’intellighenzia romana si riunisce a cena da lei, in una casa “accogliente, disordinata”. In cucina, c’è una gigantesca pentola piena di rigatoni al sugo che la Betti ha cucinato al dente come piacciono ad Alberto Moravia. Non importa se lo scrittore siede davanti al suo piatto con atteggiamento “indifferente”.

Laura assomiglia alla strega cattiva di Hansel e Gretel. Terribile e divina allo stesso tempo. La sua aggressività verso tutti e tutto è così esagerata che alla fine ti ammali”. Dice cose tipo: “Chiara, ma perché frequenti questa frocia?”, riferendosi a Monicelli. “Mollalo e vai a scopare con uno giovane”.

Sono alcune delle pagine più crude e tristi dell’intero libro. In cui la Betti sembra diventare il simbolo di un disfacimento che, in realtà, è collettivo. Una “regina” “grassa, gonfia, enorme come un pachiderma” per via della fame nervosa che la assale di notte. Così incontrollabile che aveva “fatto costruire un cancelletto in ferro intorno alla cucina”. Ogni notte, prima di andare a dormire, lo chiudeva col lucchetto per poi lanciare la chiave a occhi chiusi nel tentativo di impedirsi di svuotare il frigorifero.

Le uova al tegamino di Mastroianni

Il cibo è una costante in tutto il libro. Se Laura Betti è ossessionata dal mangiare, Marcello Mastroianni lo è ancor di più dal cucinare. Una passione per padelle e grembiulini che stride con l’immagine del latin lover che gli avevano appiccicato addosso e che lui detestava.

Quando si trattava di armeggiare ai fornelli, Mastroianni prediligeva una cucina “ignorante” – Rapaccini in un capitolo racconta la fuga dell’attore e di Monicelli da una cena all’insegna della nouvelle cuisine al grido: “Andiamo a farci due spaghi” – e aveva un’ossessione per gli ingredienti e gli strumenti “di una volta”. Le uova “fresche, mica come quelle dei negozi che non sai che roba è”, vanno fritte nel tegame “de fero” come quello che usava sua madre, che è “meglio delle nuove padelle antiaderenti”, con l’ olio “bono de Orvieto”.

Non è difficile immaginare prima lo sconcerto e poi l’insofferenza delle sue donne, da Catherine Deneuve a Faye Dunaway che, attirate dal macho visto sullo schermo, si erano risvegliate a fianco di un casalingo dedito ad avventure non tanto erotiche quanto domestico-culinarie.

Il metodo “de noi altri”

Due gli episodi su Alberto Sordi. Che raccontano entrambi un’idea del cinema e del mestiere dell’attore da “italiani a Roma”.

Una presa di distanza dagli yankee e uno sberleffo all’industria del cinema di Hollywood che Sordi mette in atto al Met di New York durante una rassegna del cinema italiano. Davanti ai giornalisti che si aspettano un discorso memorabile o almeno impegnato, lui che cosa fa? Si esibisce come un bambino delle elementari nell’imitazione della gallina, dell’aeroplano, della mucca.

Ma è il secondo, meno plateale, che riflette ancora meglio la distanza tra la Cinecittà e la Hollywood di allora. Siamo sul set del film Un borghese piccolo piccolo. Alberto Sordi e Shelley Winters devono girare una scena molto drammatica.

Winters, americana, seguace del metodo Strasberg, se ne sta in disparte. Ha voluto che gli attrezzisti le sistemassero sotto il vestito un piccolo registratore per poter ascoltare alcuni canti yiddish che la riportano “al suo triste passato ebraico e la fanno commuovere”.

Mentre si concentra, tutti intorno mantengono un rispettoso silenzio. Anche Sordi, che se ne sta appoggiato allo stipite della porta, con uno sfilatino di mortadella tra le mani e “ogni tanto lo addenta sorseggiando un bicchiere di rosso”.

Due mondi lontanissimi. Eppure, quando Monicelli dà il via, eccoli “entrambi in ruolo, entrambi mostruosamente bravi”.

Prima di Ecce Bombo

Nei primi tempi della sua vita romana, Rapaccini lavorò come segretaria, telefonista, tutto-fare nella Cooperativa 15 maggio che all’epoca riuniva tutti i grandi del cinema.

E, infatti, ricorda, fuori c’era “la fila di studenti del Centro Sperimentale” che speravano in un incontro “fortuito” con un regista, uno sceneggiatore cui presentarsi, chiedere una mano, scucire un incarico, un lavoretto.

Tra questi, c’era “un tipo lungo lungo con gli occhiali da nerd”, addosso una “maglietta sdrucita, i capelli disordinati sulle spalle” e “l’accento romanesco ma colto di quelli di Roma nord”.

È Nanni Moretti ventenne in versione “stalker”. Contro ogni regola, Rapaccini decide di aiutarlo, in parte, spiega anche per “vendicarmi delle angherie subite dai mostri sacri” e gli consegna l’indirizzario con i numeri di telefono di tutti gli illustri soci della cooperativa. E così Moretti inizia a tampinarli senza pietà finché ottiene di proiettare i suoi primi super otto nella sala riunioni della cooperativa davanti allo sguardo spiazzato dei grandi vecchi del cinema.

Non potrebbe esserci fermo immagine migliore del momento in cui un’era sta per finire e un’altra è lì lì per cominciare.