Matteo B. Bianchi racconta la solitudine dei sopravvissuti

Sotto il titolo del libro di Matteo B. Bianchi, La vita di chi resta, c’è scritto “romanzo”.

Mi chiedo se sia così, una volta arrivata alla fine.

Appena pubblicato da Mondadori, il libro può essere letto aprendolo quasi a caso, perché si tratta di riflessioni, ricordi di vita e di morte. Pagine che si potrebbero benissimo strappare, mettere in tasca, per rileggerle di quando in quando, oppure infilarle tra le pagine di altri libri, un’agenda, persino “incollare” sul frigorifero con un piccolo magnete. Come una sorta (anche se può sembrare paradossale considerato la storia che racconta) di “memento vivi”.

Lo dico, non vorrei essere fraintesa, come un apprezzamento. Perché quasi ogni pagina de La vita di chi resta è densa abbastanza da bastare a se stessa.

Era il 1998, quando S. l’ex compagno di Matteo B. Bianchi si suicidò. Non stavano più insieme da tre mesi dopo una relazione durata parecchi anni, un grande innamoramento che si era man mano sgretolato, avvelenato da accuse, suppliche, recriminazioni, diversità inconciliabili.

Fu lui a trovarlo, impiccato. A casa sua, di cui S. ancora aveva le chiavi perché ogni tanto andava a recuperare pezzi della sua vita passata rimasti lì.

Il libro si apre in modo cinematografico. Ti sembra di vederla la scena, con l’ambulanza che arriva: “Qualcuno ha chiamato l’ambulanza. Il portinaio, un vicino, non ho idea di chi si sia preso la briga di farlo”. I paramedici che ansimano salendo i cinque piani di scale, i vicini che assistono “allarmati e confusi”.

Anche se l’autore non lo dichiara subito in modo esplicito, è evidente dalle prime righe che qualcuno è morto. Che quel qualcuno era S. E anche che non si è trattato di un incidente, un malore improvviso.

Quel pomeriggio mi aveva chiamato in ufficio dal telefono di casa. (…) Ha concluso così: ‘Comunque non preoccuparti: quando torni io non ci sarò già più’. L’avevo presa per un’informazione tecnica, ma era una dichiarazione metaforica. Era il suo addio.

S. si è tolto la vita. Lasciando l’ex tormentato dai sensi di colpa (“mi torna in mente il ricordo di una nostra discussione. S. che dice: ‘Dammi un’altra possibilità’, e io che rispondo: ‘Ti ho dato un milione di possibilità, adesso basta’. (…) Lui mi aveva chiesto una proroga e io l’ho rifiutata. Sono un mostro”).

Soffocato da un dolore che gli altri non riescono a capire (“Mi danno consigli dall’alto, ma io sto in un altro luogo. Come offrire un bicchiere d’acqua a un uomo in fiamme e meravigliarsi che lo rifiuti“).

E, quando l’emozione lascia spazio alla razionalità, incredulo: Perché i saggi di psicologia, gli studi sociologici “si occupano delle vittime e non sui superstiti? Perché ignorano il dolore di chi resta?”.

La vita di chi resta, spiega nelle pagine successive l’autore, nasce anche per riempire questo vuoto, scrivere il libro che allora avrebbe voluto leggere. Perché i sopravvissuti come lui sono tanti eppure si sentono sempre soli.

Lo fa, lasciando che le parole fluttuino su due linee parallele e distinte visto che, dice, in lui convivono due “identità”: c’è la persona e c’è lo scrittore.

Anche se, leggendo il libro, verrebbe da aggiungerne una terza. Ovvero, l’analista, il curioso dei dati, del fenomeno, delle reazioni sociali, delle possibilità di supporto che forse ci sarebbero ma che è difficile trovare. È quest’ultimo che annota: “Si calcola che nel mondo avvenga un suicidio ogni 40 secondi. Ogni anno più di un milione di persone si toglie la vita (un numero che supera sia le vittime di omicidio che quelle di guerra). Si ipotizza che i tentativi non riusciti siano dieci volte tanto. Solo in Italia si suicidano in media circa 4000 persone l’anno”.

E, ancora: “Secondo l’American Psychiatric Association la perdita di un familiare per suicidio è differente da qualsiasi altro tipo di lutto ed è un evento catastrofico paragonabile all’esperienza in un campo di concentramento”.

Ma tornando al Matteo B. Bianchi persona-scrittore, ecco giusto un esempio di ciò che troviamo nella pagine quando a esprimersi è la prima “identità”:

Quando sei vittima di una simile tragedia l’unica cosa che vuoi fare è farla finita. Allontanarti da tutto e da tutti, mettere fine allo strazio in un colpo solo. Ed è la sola cosa che non puoi fare. Perché hai visto cosa provoca sugli altri, i danni emotivi che crea. Non potresti mai infliggere a coloro che ami quell’inferno che stai vivendo tu ora. Una contraddizione perfetta, di una crudeltà sublime.

Mentre, non potrebbe essere che uno scrittore a ricordare le modalità di addio di alcuni “colleghi” celebri. Come quella scelta da Romain Gary, “che si è tolto la vita con un colpo di pistola a letto, lasciando un biglietto sul comodino che diceva: ‘Non mi sono mai espresso così chiaramente’”. O le riflessioni di Cesare Pavese che scrisse: “I suicidi sono omicidi timidi. Timidi perché l’assassino si rivolge contro sé stesso, non fa male ad altri.

Ma La vita di chi resta va oltre le intenzioni dichiarate dell’autore. Il racconto della sua relazione con S. riguarda tutti. Anche chi non ha mai vissuto un lutto del genere, persino chi non è mai stato lasciato o non ha mai sofferto per amore. Ma che, magari, si è semplicemente chiesto come e perché ci si sceglie.

Ci sono amori che nascono per affinità, per circostanze favorevoli, per comunanza di ambienti e amicizie, per pura attrazione fisica, per compatibilità estetica, per ideali condivisi, per colpo di fulmine. Il nostro è nato per sfida. Perché niente intorno a noi suggeriva che fosse possibile. Troppo diversi, per formazione, estrazione sociale, famiglie, educazione, cultura. Ma abbiamo scelto di fottercene.