Mino Di Martino: il vagabondo pop

Certi cani sciolti sono più puri degli altri. E lo sono non tanto per la capacità innata di addentrarsi senza paura nei sentieri più impervi, rischiando così la pelle e spesso e volentieri pure qualcos’altro, ma per l’integrità spirituale che li caratterizza in ogni scelta; quella forza d’animo che li porta in cima alla collina solo per lo sfizio di ululare con fierezza una libertà conquistata tra morsi e rimorsi. Nel 1984, Mino Di Martino è un lupo solitario come pochi altri. Un animale da palcoscenico e dalla pellaccia dura. Un sopravvissuto agli anni ’70, alle lotte di classe, ai circoli illuminati di una nicchia italiana in trincea permanente. Dalle alchimie sonore del collettivo Telaio Magnetico, fondato da Franco Battiato nel 1975, al pop leggerissimo e ye-ye della band Il Supergruppo, composta da elementi provenienti da altre formazioni di successo come Victor Sogliani dell’Equipe 84 e Gianni Dall’Aglio dei Ribelli, passando per il beat scanzonato dei Giganti, gruppo da lui creato e di cui faceva parte anche il fratello Sergio, e gli esordi come grande promessa del pop radiofonico scoperta dal luminare della musica italiana per antonomasia, Carlo Alberto Rossi, Giacomo Di Martino, per tutti Mino, ha sempre mantenuto in ogni occasione un profilo basso in apparenza. Il suo essere un autentico camaleonte, rifuggendo all’occorrenza da tutto e tutti, è stato l’approccio fondante di un cammino che lo ha condotto inesorabilmente verso quel bivio che ogni musicista affronta almeno una volta nella vita; quel nodo da sciogliere prima che sia troppo tardi e i rimpianti prendano quote preoccupanti.

Il 1984 è quindi per il cantautore e polistrumentista milanese l’anno della svolta definitiva; del rigore in movimento che proprio non puoi fallire. Mino le ha già provate tutte e con tutti; è il più talentuoso della cricca di Battiato, ma allo stesso tempo è anche il più sfortunato. Il contratto con la Emi è però il volano giusto. Ma anche l’ultima spiaggia di una carriera fino a quel momento ondeggiante. Con lui c’è il dream team della musica italiana dell’epoca: Alberto Radius, Lino Capra Vaccina, Claudio Pascoli, Stefano Cerri, Paolo Donnarumma, Filippo Destrieri. Insomma una combriccola pazzesca. Mino, dunque, non può fallire; ha le carte in regola per cavalcare l’onda come Duke Kahanamoku a Honolulu. E la camicia hawaiana in copertina la dice lunga. Così come Giallo tropicale, secondo giro di boa di un album tutt’altro che svagato. Per Mino, infatti, il pop è una scusante. Un mezzo necessario per ambire all’eterno. E nulla più. Il resto è ben altro. Se infatti da un lato il musicista non rinuncia alla vanagloria del cantautore impegnato sceso a valle per riempire un secchio ancora fin troppo vuoto, dall’altro lato l’uomo non riesce a mettere da parte la sua penna affilata, irriverente, spietata e in anticipo sui tempi.

«Ho già un depliant in tasca per il Brasile,
Davanti a un poster giallo tropicale,
Abbronzatissimo, occhiali scuri
Non ho voglia di portare le valigie
Lo sbarco in Normandia è una produzione di Hollywood
La Cina è sempre più vicina
Hiroshima mon amour!»

Mino sfotte i creduloni, le destre arrapate, i benpensanti dall’alito agghiacciante come le fogne di Calcutta, per dirla con Villaggio; finge di prendersi sul serio ma è solo un giullare che ha ben chiara la faccenda e di conseguenza sorride per non piangere miseria. Mino è un vagabondo che odia il centro. Il suo spazio è, appunto, Alla periferia dell’impero. Un titolo che strizza virtualmente l’occhio a marxisti e complottisti ante-litteram, ma che in realtà incarna il disincanto di un uomo oramai cosciente dei propri limiti, al punto da sbeffeggiarli senza pausa alcuna. Mino cita Orwell per il gusto di fare una pernacchia ai filibustieri di un futuro ancora tutto da scrivere. L’esperienza coraggiosa dell’Albergo Intergalattico Spaziale lo ha travolto al punto da renderlo irrimediabilmente cinico.

«Dove sono stato, amore, in tutto questo tempo?
Bloccato da un’emozione, intossicato di biologia
Forse troppo tardi, per sentirti mia.
No, no, 1984
No, non sarà come descrive Orwell!
No, no, 1984
Sarà più o meno come l’anno scorso
Tu vedrai un po’ più voglia di vivere
Un po’ più voglia di morire»

Ma è con Domani che Di Martino anticipa il dramma di neet ancora in fasce, il sogno ad occhi aperti di boomer appena diciottenni e l’incompletezza delle vacche grasse. Più che una canzone, Domani è il manifesto di un’illusione perpetua, il suo centro di gravità permanente. Si vola così dall’Himalaya al «guardaroba firmato da Armani»; da «un cornicione al trentesimo piano», raggiunto sognando di essere un agente dei servizi segreti, a domeniche trascorse «fantasticando il suicidio». Non c’è profezia che tenga. Mino ha già visto il futuro, perché, in fondo, conosce meglio di tutti il suo passato. In Garçonniere le cose si fanno ancora più interessanti. L’invettiva è politica. Di Martino anticipa di quarant’anni battaglie sessiste e lo fa in punta di piedi, senza il paravento di uno schermo oled; estrae il complesso di Edipo per il mero gusto di arrendersi alla realtà: «Fuggi Edipo da te stesso, cercando il padre che ti ucciderà. […] La solita storia: il padre sposa la figlia e manda il figlio alla guerra a risolvere l’enigma». Io sono l’Europa è invece il canto del cigno di un’utopia malriposta; il conflitto d’identità di un’ambizione malintesa, di una classe sociale e parlamentare banalmente ignava.

«Parlami di Schumann, di Chopin, di Debussy
Le passeggiate nei bellissimi parchi di Vienna
Sto perdendo la mia identità, la mia memoria
Muore il mio principio di realtà
Io sono l’Europa, l’Europa intesa come una favola
Santi, guerrieri, matematici, folle di schiavi si agitano nelle mie cellule
Io sono l’Europa dei venti, dei vincitori
Io, io sono l’Europa!
Inventami la storia di Venezia, dei suoi palazzi, delle sue navi che partivano verso l’Oriente
Sto perdendo la mia identità, la mia memoria»

E la musica? Un concentrato di puro candore pop. Tra una strofa e l’altra, si inseguono eccitati ritornelli che in un mondo ideale scalerebbero le classifiche in ogni dove. Mino però paga l’onda lunga del pop funky alla Battiato consumato fino all’inverosimile nei jukebox e lungo le spiagge di un’Italia al settimo cielo. Il basso sbarazzino alla Cuccurucucù e la chitarra inconfondibile di Radius sono, evidentemente, fuori tempo massimo anche per i tempi, ed è forse questo il segreto del suo insuccesso. O meglio: il dado mai tratto di un Rubicone, ahinoi, inesplorato.