Missione Sud, da dove ripartire

Etimologia greca e latina, tra proiezioni economiche e disequilibri geopolitici, e ovviamente la letteratura, passando con disinvoltura da Cormac McCarthy alla narrazione della Strada Statale 106 Jonica: da Taranto a Reggio Calabria, “un universo di intelligenze sconosciute”.

Perché Gioacchino Criaco, prima di essere scrittore, è un uomo che ama la terra da cui proviene, senza risparmiare alla Calabria critiche e giudizi, al netto delle nostalgie.

Ama con la praticità di chi pensa alla cura, le possibilità di sviluppo, cercando di incidere e rimuovere luoghi comuni, narrazioni superficiali, evitando le asserzioni retoriche. “Se fossi stato un politico avrei fatto un unico programma: decementificare, distruggere ogni cosa costruita in eccesso”: dalle architetture mai completate ai preconcetti falsati, Criaco demolisce e recupera, ricorda e progetta, tutto in funzione del futuro, che per la Calabria assomiglia sempre più a un condizionale.

Così riattraversando il passato dalla giusta prospettiva, con parole ricostruite nelle esatte accezioni, lo scrittore ci conduce in un ragionamento sul Sud, in rapporto alla sua identità, i suoi errori e prossime sfide.

Dopo il fallimento dell’industrializzazione, il turismo è l’ennesimo piano di riconversione per il Sud? Un modello imposto?

Assolutamente, non è una nostra decisione. Sono una serie di promesse che vengono tradite, perché manca una visione a lungo termine, ma lasciano una consolazione. Un incoraggiamento. In realtà i progetti per il Sud sono sempre finiti nel nulla, proprio perché estemporanei. Quello che resta è una costanza: il Sud come una terra di servizio, per molti anni in forma di un’umanità che serviva da un’altra parte. Ci hanno spostato a piacimento, noi ci siamo anche auto convinti che ci piacesse andar via con una speranza di realizzazione. In realtà siamo andati dove c’era bisogno della nostra presenza. Adesso il turismo è un ristoro per quelli che sono andati via per lavorare, non per tornare e costruire un reddito. Tutto è basato su un argomento sciocco, che dal punto di vista economico non ha valore assoluto. “Potremmo vivere di turismo”, ci ripetono, in realtà non ci sono macro-aree che possano vivere esclusivamente di questo. Ci si adatta per costruire un’alternativa che non è mai decisiva. La desertificazione è l’unico progetto vero: fino a quando c’è materiale umano che si sposta per lavorare da qualche altra parte, il vuoto creato dalle partenze viene occupato con un altro tipo di servizio, che al momento è l’hub energetico. Il meridione ha solo lo scopo di rifornire energia che serve a centinaia e migliaia di chilometri di distanza. I progetti falliscono perché l’unico disegno per il Sud è quello di terra di servizio.

A questo punto si potrebbero riscrivere le categorie di benessere e progresso?

C’è un fraintendimento a monte: i meridionali non sono certi del progresso e del benessere di cui hanno bisogno. Anche questi sono schemi che vengono da lontano e non ci appartengono. Il benessere è inteso come il bene di lusso: l’essere vestiti alla moda, l’auto nuova, in realtà è tutto ciò che si ritiene essenziale per avere una vita dignitosa. Il benessere non è un orpello del sistema consumistico eppure noi ci stiamo trasformando in questa direzione. Attualmente non sappiamo più cosa sia il benessere, per migliaia di anni l’avevamo individuato nel tempo a disposizione. Lottavamo perché si riducesse il lavoro e aumentasse il tempo, invece adesso c’è un capovolgimento di quello che veramente occorre a una società. Non avendo più riferimenti non riusciamo più a individuare quello che veramente ci serve.

Nato ad Africo, studente a Bologna di giurisprudenza, residente a Milano. Cosa ha determinato il suo cambio di prospettiva sul Sud?

Il mio bisogno di ragazzo era riuscire, essere tra i primi, uno di successo, stare dove si lavorava dalla mattina alla sera, dove c’erano tantissime opportunità: fare i soldi, insomma. Questo è il meccanismo che ha incastrato intere generazioni ma se si osserva il ciclo completo, nella maggior parte dei casi si risolve in una vita che comincia e finisce con il lavoro. E anche i pochissimi, più fortunati, che hanno condizioni di vita migliori, sono prigionieri dell’infelicità che viene dal rendersi conto che non hanno compiuto realmente una scelta, sono stati incanalati in una strada. Io mi sono reso conto di essere stato fregato, qualcosa che difficilmente si riesce ad ammettere: se si è riusciti a combinare qualcosa, tenti di proporre con orgoglio il tuo successo. Ma noi non abbiamo successi, abbiamo soprattutto rimpianti. Il rimpianto di non aver scelto: per lo studio, la sanità, qualsiasi cosa tu volessi, ti si convinceva che stava a chilometri di distanza. Si creava un punto di vista, in cui l’ultima prospettiva era il Nord, l’Occidente. Magari se avessi guardato dal lato opposto, avrei trovato immediatamente cose che erano molto più interessanti dei soldi: si poteva scoprire un mondo fantastico a Cipro, i Monti dello Shuf in Libano, la Siria. C’erano meraviglie forse più grandi, ma nessuno ce le ha spiegate. Ho capito che la felicità è la meraviglia che il mondo contiene e che noi non scopriamo mai se non in modo indiretto attraverso letteratura, cinema.

Ha scritto ne Il custode delle parole che il dialetto calabrese non ha la coniugazione al futuro, perdendo di fatto, per chi lo parla, la possibilità di pianificarlo, ma tutti i cittadini sono diventati utenti: Martin Amis nell’ultimo romanzo, La storia da dentro, osserva che i passeggeri delle compagnie aeree e i pazienti degli ospedali vengono chiamati clienti, la democrazia parlamentare è ridotta all’emergenza dei decreti legge, riducendo la discussione. Non pensa che il futuro, ma anche il linguaggio, sia stato sottratto e stravolto in tutto il mondo?

Il Sud è stato la preda più facile, per ragioni storiche e culturali: un laboratorio. Come se si fosse deciso di appiccare un incendio, che comincia in un posto, ma se non si arresta, dilaga. Il mondo si sta meridionalizzando, perché è un metodo che funziona. In Lombardia spesso negli ospedali, anche pubblici, a qualcuno sfugge la parola “clienti”. Qualsiasi bene comune sta diventando oggetto di vendita, è l’omologazione e la privatizzazione del mondo. C’è questo esempio clamoroso della guerra in Ucraina: le azioni sono affidati a milizie private. Non sono soldati di una nazione che invade o si difende, ma sono queste forze armate che occupano o tolgono la libertà. La Wagner ormai è diventata l’esempio mondiale della privatizzazione della guerra. Non sono più cittadini di una nazione che si convincono di dover difendere un Paese o invaderne un altro, ma sono milizie private che interpretano il sentimento di patria, nazione o libertà. È la schizofrenia di un modello che sta trasformando l’umanità. Fino a qualche anno fa eravamo convinti di essere stati assegnati a un’epoca noiosa, in cui non accadeva niente, adesso è il momento in cui finisce veramente il Novecento e arriva molto velocemente un’altra epoca.

Certo, anche se Francis Fukuyama parla e scriveva di Fine della storia, in realtà c’è stato sempre chi ha messo in guardia che i conflitti ma soprattutto le ideologie non fossero affatto finite.

C’è stato anche questo inganno, che le ideologie fossero finite. Tutti siamo andati dentro casa, abbiamo trovato le nostre bandiere che ci definivano e siamo corsi a nasconderle, pensando che non servissero più. In realtà l’umanità senza un’idea di umanità si condanna alla fine.

Il poeta uruguaiano Mario Benedetti parlava di desexilio, il sentimento di estraneità di chi ritorna a casa, nella propria terra; che rapporto ha avuto con il rientro in Calabria?

Il distacco è un po’ la sindrome del carcerato. Chi è allontanato per un lungo periodo in galera subisce questo processo psicologico che blocca il tempo, non vuole ammetterne una perdita, che glielo stiano rubando. Si convince di stare al passo con tutto quello che accade, con quello che succede all’esterno. Legge, guarda la televisione ed è convinto di vivere il tempo come gli altri. Invece è un periodo che trascorre velocemente e quando uscirà si troverà in un mondo diverso a cui non era preparato. Tutti quelli che hanno un distacco, che sia un allontanamento per esilio o per il lavoro, subiscono questo effetto: fermano il tempo all’epoca della partenza. Quando torni nel posto in cui sei nato, a cui ti senti straordinariamente legato, di appartenere, sei profondamente spiazzato, perché quel mondo è cambiato: non è come l’immaginavi, ha camminato anche senza di te. E noi non possiamo ammettere che le cose che amiamo di più vivano anche senza di noi. Tutto continua, l’inganno del tempo è questo: nessuno lo può fermare. Così ti tocca costruire una serie infinita di alibi per convincerti di non averlo perso: che hai capito molte cose, che hai partecipato ad un processo. Questo è il più grande dolore degli allontanamenti forzosi: c’è qualcosa che tu non puoi più recuperare. È come una casa in montagna, chiusa durante i mesi invernali, quando si torna d’estate, si dà una ripulita e ci si vive, ma quella casa ha vissuto anche durante l’inverno. Ci sono stati ragni, formiche, insetti che ne hanno fatto casa loro, magari una volpe è entrata e ne è uscita. Quella casa ha vissuto le notti gelide, il ghiaccio, la polvere che è entrata attraverso le finestre, non è stata nel vuoto ad aspettarti. Questo è tutto quello che non riusciamo ad ammettere.

Nel documentario Oh, rovina! di Domenico Lagano, parla da testimone del non finito calabrese, nell’accezione fisica e simbolica. Ne sono un esempio anche la mancanza di memoria o la dispersione di identità delle nuove generazioni?

Si, è un futuro che si cerca in altri modi. Non avere memoria del passato è la speranza di un avvenire in cui ricostruisci le cose da solo. Quello che ti manca è come se non ci fosse mai stato: cancelli qualsiasi passaggio del passato, per trasportarlo in un futuro che assembli secondo il modello che ritieni opportuno. È il colmare la mancanza di futuro nelle lingue del Meridione, cosa di cui stranamente gli intellettuali, a parte Leonardo Sciascia, non si sono accorti: abbiamo vissuto per secoli in un mondo che non parlava al futuro. Il non finito che era la promessa di rincontrarci e ricostruire le memorie e gli affetti che avevamo perduto, anche un modello sociale, è diventato pacchianeria, volgarità, sciatteria, sfregio. Il vero dramma è che non abbiamo un tessuto culturale che abbia la voce del Sud, non per principio localistico, dell’andare o restare, profondamente retorico, ma come esigenza di interpretare il mondo da parte di chi guarda al Mediterraneo e oltre, di chi si sente Africa e Oriente, perché lo è.

A proposito della retorica del “chi resta e chi parte”, di quale altro precetto enfatico farebbe a meno nella narrazione del Sud?

Di questi mondi straordinari che vengono descritti: il nostro mare è il più bello del mondo, come le nostre montagne, il nostro cibo. È una parodia, anche perché la maggior parte dei prodotti che sono l’emblema della cucina del Sud provengono da altri posti. Il pomodoro, le spezie. Il peperoncino, ad esempio, è il simbolo della Calabria, ma sicuramente non ha le sue origini nel territorio. Una retorica che non porta da nessuna parte. La cosa più brutta che la cultura può rifilare è la consolazione, e noi viviamo di un tessuto culturale che produce esclusivamente questo sentimento. Allora diventa eroe chi rimane nel proprio paesino, in realtà occorre spiegare bene: non si deve essere restare perché prima ci fosse una società perfetta. “Era meglio una volta” è una balla. Si deve cercare di restare in un posto perché se si abbandona la natura, poi si rivolta contro. Se salta questo equilibrio si mette a repentaglio la vita di tutti. L’abbraccio, il calore dei paesani non sono mai esistiti.

Mi viene in mente il romanzo di Mariateresa Di Lascia, Passaggio in ombra, che ribaltava drasticamente questa immagine di comunità perfetta. Un libro stranamente dimenticato.

Perché ci dobbiamo raccontare come un mondo che era straordinario, e noi come eredi della sua ricostruzione. In realtà non è mai stato un mondo meraviglioso, ma era un cosmo che con fatica e con le proprie difficoltà cercava la propria strada. Il problema è questo: abbiamo smesso di individuare il percorso, siamo andati ad aprire strade in altri contesti, senza proseguire la nostra, che ci portava a migliorare le cose che non andavano. Fino a qualche tempo fa, subivamo un retaggio medievale, di sfruttatori e sfruttati. Noi meridionali abbiamo sofferto qualsiasi tipo di sopruso e ingiustizia, non siamo mai stati in paradiso, in una terra ricchissima, il Regno delle due Sicilie. Il popolo è stato sempre male, ma se avesse proseguito nella propria ricerca, magari, avrebbe avuto la prospettiva di arrivare un giorno a un punto di equilibrio con la natura. Questa ricerca si è interrotta ed è riempita dalla retorica che il paradiso lo avevamo già creato, qualcuno ce l’ha rubato e adesso non ci è permesso ricostruirlo. L’unica cosa che avevamo erano posti ricchi di umanità, ribellione, di chi aveva la curiosità di trovarselo il futuro. Ecco, ci hanno spento la curiosità per lasciarci questo sentimento di paura, consolazione o orgoglio stupido.

Se il cambio di prospettiva deve partire da una riconversione dei significati e significanti, lei da quale parola partirebbe?

Sono partito dalla luce: ero andato via dall’Aspromonte perché descrivevano il mio mondo come buio (dal latino “Monte Aspro”, mentre in grecanico corrisponde a “Monte Bianco”, questo passaggio è presente ne Il custode delle parole, ndr.). Siamo andati via pensando di dover rincorrere la luce, il futuro. Cosa di cui abbiamo bisogno culturalmente, in realtà noi eravamo già nei posti luminosi che avrebbero potuto esserlo ancora di più. Una parola che cambia la vita è in questa inversione di significato: “asper”, tra luce e buio e ti rendi conto di aver intrapreso la via sbagliata. Pensando di correre dietro alla luce, ti ritrovi il buio. E invece di dirigerci verso l’Oriente o l’Africa, andiamo verso quella società che divora il tempo e ti restituisce una vita di lavoro.

Il tour promozionale dei suoi libri sembra più un appuntamento di evangelizzazione, non nel senso dell’indottrinamento, ma nel recupero dell’importanza dell’incontro con il prossimo.

Non abbiamo altra strada se non quella di parlarci e confrontarci, specialmente in un momento del genere, in cui tutti appariamo confusi. Poi accade di andare in giro, credendo di dover spiegare delle cose, in realtà si realizza l’inverso. Ogni volta più che insegnare, imparo qualcosa, che è una grande gratificazione: la scoperta di un mondo che è vivo nei posti più impensabili. Menti straordinarie e idee nei paesi più piccoli, dove non pensavi di trovarli, ai margini, nelle periferie. Al centro ci sono concetti stratificati di un certo tipo di benessere, che ormai è cementificato: non si lavora per un futuro sorprendente. Correrei il rischio di essere anche stupido in senso negativo, ma mi rendo conto che nel centro si lavora in un’unica prospettiva.

Nelle periferie c’è la possibilità di incontro con ciò che è differente da te, perché resta un luogo di confine.

La vera speranza dell’umanità è la frontiera. Cormac McCarthy l’aveva intuito. Nasce nello stato statunitense più piccolo, Rhode Island, che è anche tra i più borghesi e ricchi, in una famiglia facoltosa, e si rende conto che sta morendo. Così decide di partire e pian piano si sposta, sempre verso l’esterno, verso i margini, diventando lo scrittore della frontiera, rendendosi conto che la vita già programmata e definita e il benessere sono morti: tu hai già tutto, ma pensi che non valga la pena di viverlo. Si ha sempre bisogno di un futuro che sia sorprendente, anche in senso negativo. In alcuni giorni McCarthy si ritrova a non poter comprare neanche il latte, ma è estremamente felice, tanto da continuare a scrivere fino ai suoi novant’anni, fino alla morte. Aveva capito tutto: il centro sta ai margini, non il contrario, la rivoluzione è la frontiera. La bellezza è vivere il confine messicano, non nel centro annoiato di Stoccolma.

A sentirlo parlare di confini e Sud, qualità della vita e meraviglia, sembra di riascoltare il canto satirico e di denuncia di Joe Strummer con The Mescaleros in At The Border, Guy: “Abbiamo costruito gli edifici della nuova città/ A partire dai popoli distrutti/ E abbiamo costruito i nuovi linguaggi /Per cortesia e velocità”, perché anche Criaco pensa che il futuro sia ancora tutto scrivere: chissà la vera rivoluzione che manca alla Calabria potrebbe essere il punk.