Napoleone e la battaglia delle pecore

Lui strangolava le pecore. Lo so che sembra strano, ma è così. Me lo confidò più di una volta mentre ce ne stavamo in solitudine durante i giorni di riposo dalle campagne di guerra. Naturalmente non posso rivelare il mio nome, altrimenti la vita per me diventerebbe un inferno, ora che Napoleone è sconfitto ed esiliato a Sant’Elena.

E a questo proposito sto pensando di andarlo a trovare nella sua isola alla fine del mondo. Non so se ci riuscirò. Sto cercando di trovare i canali giusti. Ma al momento l’impresa sembra quasi impossibile. L’hanno chiuso in un’estrema solitudine, e in quello stato hanno deciso che dovrà morire.

Ma riprendiamo.

Dicevo che quando era ragazzo, durante i ritorni in Corsica, aveva raggruppato una piccola banda di guastatori. Avrà avuto quindici anni e non riusciva a stare quieto neanche durante la notte.

Ogni tanto me lo trovavo, anche in età adulta, affianco al mio letto che, ad occhi aperti, parlava di cani, foglie morte, mesi incerti, generalesse, ginepri, campi di coltivazione, serpenti. Cose del genere. Io, che sapevo del suo sonnambulismo, lo lasciavo fare. Prima o poi smetterà, pensavo. Invece quelle visite notturne si dilungavano per ore. Perché dopo gli elenchi riprendeva a parlare di donne e delle loro malizie, aggiungendo: ma io sono più malizioso di loro, caro mio, molto più malizioso. E a dire la verità quando era in quello stato, tutta la sua veemenza nell’oratoria, svaniva. Sembrava un uomo pacato, uno di quei cantastorie che s’incontrano ancora negli angoli delle strade e che incantano un numeroso pubblico di curiosi.

Insomma ritornato in Corsica metteva su una piccola compagnia di disturbatori che se ne andava nottetempo a guerreggiare con le boscaglie, le asperità di quella terra e quindi, quando avevano la fortuna di incontrare qualche gregge, anche con le pecore. All’epoca non ce n’erano molte nella sua isola. La popolazione animale maggiore era quella delle capre. Ma le capre sono antipatiche, diceva sempre l’imperatore. Hanno quella faccia piena di supponenza che le prenderesti a schiaffi immediatamente, prima che possano aprire bocca. Trovando il gregge al pascolo o nell’ovile, la prima cosa da fare era quella di rendere inoffensivi i pastori e i cani dei pastori. Quindi si dividevano in tre o quattro piccole brigate e delle volte con le buone, facendo cioè ubriacare il pastore di turno e anche il cane, altre volte con una botta in testa, li neutralizzavano.

C’è da dire, ma solo per esattezza di racconto che secondo il nostro imperatore, i cani da pastore sono ghiotti di acquavite. Io questa cosa non l’avevo mai sentita. Ma lui ne dava prove certe. Ne abbiamo fatto ubriacare a decine, diceva e iniziava a ridere come un forsennato. Quindi iniziava la battaglia. Che poi non era una vera battaglia. Era come una specie di divertimento, un modo per essere sempre in azione, visto che il nostro imperatore non è mai riuscito a rimanere fermo in una stanza (come suggerirebbe il buon Pascal). Si formavano i gruppi. Dividevano le pecore in piccoli reggimenti, e secondo alcuni schemi venivano fatte scontrare fra di loro. Chi aveva la migliore tattica, riusciva a sconfiggere gli altri.

Ora, a dire la verità non ricordo bene le regole della vittoria e della sconfitta, nel senso che non ricordo cosa dovessero fare, se combattere fra di loro o conquistare una parte di terreno. Questo è un dettaglio che mi sfugge. Insomma al vincitore venivano resi grandi omaggi, mentre gli sconfitti dovevano spogliarsi e entrare nel gregge. Nel senso che diventavano, per qualche tempo, una mezz’ora, un’ora, anche loro delle pecore.

Napoleone vinceva sempre. Non so come facesse, perché su questi particolari non indugiava, ma vinceva sempre. Tranne due volte, in sole due occasioni era stato sconfitto. Troppa distrazione, mi diceva, e in quel momento diventava cupo come se avesse perso la battaglia di Rivoli, quella che gli consentì di schiantare il Sacro Romano Impero. Poi si alzava, andava alla finestra e con una voce che sembrava arrivare direttamente dallo sfintere, proseguiva nel racconto di queste due débâcle. Era sicuro di avere la situazione in pugno, ma l’avversario aveva fatto un movimento che lui non aveva previsto ed era riuscito ad aggirarlo. Insomma in poche parole aveva dovuto dichiarare la resa.

Perché, continuava girandosi verso di me, il segreto vero è uno solo: prevedere tutte le mosse, anche quelle che ti sembrano impossibili, inspiegabili, quelle che neanche un folle potrebbe pensare. Ecco. E a tutte le supposizioni a tutti i movimenti ipotetici contrapporre una reazione contraria, che al momento giusto ritorna utile. Questo è il segreto delle mie vittorie.

Quindi le sorti, durante quella battaglia delle pecore, si erano svolte a suo sfavore per una mancanza di attenzione e ormai la sconfitta era chiara, per cui iniziò a spogliarsi. A me piace essere nudo solo quando sto con una donna, neanche quando mi lavo mi piace rimanere nudo. Vorrei lavarmi con gli abiti addosso, ma non si può mio caro, questo lo sai anche tu. Figurarsi quale umiliazione potesse essere quella in cui era precipitato: essere nudo, a quattro zampe, in mezzo alle pecore.

Era insopportabile, continuava sempre guardando dalla finestra. Insopportabile. Un disonore insopportabile. E mentre lui se ne stava in quelle condizioni i suoi amici, abituati ai suoi scherni, chiaramente infierivano su di lui.

Penso che se mio padre mi avesse scoperto a copulare con una donna in mezzo alla stanza da pranzo, avrei provato meno vergogna, diceva battendo il piede sul pavimento. Starmene lì in mezzo a quegli animali senza cervello, a fare il pagliaccio per i miei amici, completamente nudo era un vero e proprio insulto. Non riuscivo a vederlo in faccia mentre raccontava questa sua avventura, ma lo immaginavo con i lineamenti tirati indietro, come un cane che sta per assaltare qualche polpaccio succoso. Certo le mani che teneva dietro la schiena intrecciate avevano dei movimenti continui, leggermente spasmodici, come di chi non vorrebbe impugnare qualcosa e spaccare il vetro della finestra.

Allora, riprendeva, alzavo il busto, rimanendo sempre in ginocchio, e prendevo a guardare la faccia delle pecore, continuò. Nella mia testa stavano iniziando ad arrivare le nuvole nere. Mi fanno visita da quando ero bambino. Nuvole nere, nebbia, furia senza freni. Per cui mi buttavo sulla prima pecora che se ne stava ad un palmo da me e iniziavo a strangolarla. Ci mettevo tutta la mia forza. E ce ne vuole, sai. Non è mica facile strangolare una pecora. L’animale fa movimenti violenti, non vuole morire. Ma io ero più forte. Stringevo sempre di più. Ci mettevo l’anima, amico mio, sul serio, l’anima. E alla fine ci riuscivo. La pecora rimaneva sul campo. Stramazzata, piegata su un lato, come stesse dormendo. Poi mi alzavo, mi rivestivo velocemente, e guardando in faccia tutti quanti dicevo: la prossima volta devo vincere, avete capito? altrimenti ne ammazzo un’altra. E detto questo me ne ritornavo da solo a casa.

Finita la storia si girava verso di me, ma aveva sulla faccia ancora il segno dell’ignominia. Di quell’oltraggio così smisurato. Ma poi vi avvicinava con un bel passo imperiale e guardandomi dritto negli occhi. Cose di gioventù, diceva sedendosi affianco a me, come se volesse minimizzare quegli episodi. Cose di gioventù, ripeteva e faceva un gesto con il braccio, girandolo in aria, come a voler significare la volatilità delle cose del mondo, la loro estrema e salutare instabilità.