Nori: dei fatti suoi, nostri e di Dostoevskij

L’unico scrittore italiano che quando racconta i fatti suoi non mi annoia è Paolo Nori. Se poi oltre i fatti suoi mi racconta anche quelli di Fëdor Dostoevskij, allora sono ancora più contento.

Credo che sia tutto merito del come scelga certi fatti suoi e come li usi per raccontare i fatti di Dostoevskij e viceversa, tanto che scrivendo una specie di romanzo che è anche una specie di biografia dello scrittore russo – sanguina ancora. l’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij  (Mondadori) – sembra che tutto combaci, che Dostoevskij sia vissuto per farsi raccontare da Nori e dargli la possibilità di raccontarsi.

Che poi la letteratura è questa cosa qua: gente che racconta i fatti suoi, inventati o meno, quelli che ha in testa e quelli che ha davanti o alle spalle, con un certo ritmo, meglio se incrociando più piani.

Ecco, Nori, dovessi dire, è un salmodiante, il miglior salmodiante italiano, il secondo è Giovanni Lindo Ferretti, che, però, col tempo ha perso ironia. Invece, Nori, sembra nutrirsi di una ironia finissima, pare che abbia un orto di ironia dietro casa, e ogni tanto esce, pesca, torna, la mette in pagina e poi va avanti. E tutta l’ironia di Nori ha a che fare con la sua vita, che sia gente che l’ha rimproverato o gente che l’ha salvato, gente che l’ha odiato o gente che lo ama, che poi mi chiedo come si fa a odiare uno che riesce a cantare i fatti suoi, in un paese che ha la narrativa più noiosa basata sui fatti di chi scrive, forse perché a Nori riesce quello che non riesce agli altri, vai a sapere, in fondo siamo un paese strano.

Ecco, anche a Dostoevskij riescono un mucchio di cose che non riescono agli altri, e quel mucchio di cose sono i suoi romanzi.

Che un po’ sono anche i fatti suoi.

Che poi a leggere Nori che rilegge Dostoevskij e racconta i fatti suoi mischiandoli a quelli di Dostoevskij con prevalenza dei secondi, devo riconoscere, insieme a una abilità nel dosaggio, che sembra una azione chimica e lo è, anche perché la chimica ha una sua importanza nella letteratura russa, agendo per contrasto, almeno così mi è sembrato, vengono tanti pensieri.

Che poi la letteratura è questa cosa qua: gente che racconta i fatti suoi, inventati o meno, quelli che ha in testa e quelli che ha davanti o alle spalle, con un certo ritmo, meglio se incrociando più piani, che ti fanno venire tanti pensieri.

Dicevo, a leggere Nori che rilegge Dostoevskij e racconta i fatti suoi mischiandoli a quelli di Dostoevskij con una prevalenza dei secondi, viene una gran voglia di leggere o rileggere Tolstoj e Gogol’ e Puškin e Daniil Charms e Augusto Monterroso, e ora il fatto che un libro su uno dei grandi scrittori russi metta voglia di leggere anche uno scrittore nato in Honduras la dice lunga sulla sua perfetta riuscita. Perché, secondo me, i libri riusciti ti mettono voglia di leggere altri libri e se sei uno che scrive ti mettono voglia di scriverne altri, e a volte può anche succedere che prima di leggere un libro riuscito tu non pensassi di scrivere e dopo sì.

E mi sono scervellato a ricordami come si chiamava un altro scrittore che raccontava bene i fatti suoi mentre raccontava anche quelli di altri scrittori russi. E dopo molte pagine di Nori mi son ricordato: Elif Batuman, che con I posseduti, mi aveva fatto dire che c’era una brava quanto Nori, ma poi nel secondo romanzo, se così si può dire, L’idiota, non mi aveva convinto. E non era per coincidenza del titolo con il romanzo, sì, romanzo, di Dostoevskij.

Che mentre leggevo Nori che raccontava Dostoevskij mi è venuto in mente persino Antonio Albanese che, in un suo vecchio sketch, a uno che gli chiedeva un limone per farsi una pera rispondeva allora sei un mago.

È un po’ quello che ho pensato per tutte le pagine di Nori che racconta Dostoevskij, perché da diversi anni leggo Nori anche quando non racconta Dostoevskij e molte cose tornano, ma questa volta tornano come se tutti i libri precedenti fossero solo il preludio a questo che poi è il suo migliore, almeno per ora, sarà per l’argomento o sarà per via del fatto che quando leggi Dostoevskij ti sembra di trovarti di fronte a tante voci, che Nori ha fatto diventare una sola, la sua, senza però togliere lo spazio al coro dell’altro. Ecco, credo che sia questa la forza del libro di Nori.

Ho detto una cosa difficile, ma poi leggendo capirete.

Perché Sanguina ancora solo quello che è vivo, e Dostoevskij lo è, passando per cose varie e altre assurde, per la vita di Nori, degli scalini da contare, la città di Pietroburgo, delle lettere che non andavano lette, un editore – Stellovskij – che piace a Pennacchi, un personaggio che muore perché ha fatto il bagno subito dopo mangiato, le riviste dei fratelli Dostoevskij, Michail che «Nell’ultimo minuto, tu, solo tu, eri nei miei pensieri, solo lì ho capito quanto ti amo, fratello mio caro», degli uomini superflui, e dei Nabokov: che poi son quelli ai quali non piace Dostoevskij, da qualche parte c’è anche Dio a volte con «la povera gente» altre no, e poi ci sono le Gerusalemme e gli sforzi disumani per essere prudenti, i discorsi fatti, lo stare dalla parte del torto, il domani e l’oggi, i creditori e i giri di parole come la pallina nella roulette, i singhiozzi, le bevute, le condanne, le assoluzioni, le promesse, tutti i soldi persi da «giocatore», gli asini svizzeri, una scatola di tabacco della ditta Laferm con una data, e «io son poi da solo, e loro sono tutti» che è la condizione di quelli che raccontano i fatti loro e ti mettono voglia di dire i tuoi.