Perché le utopie sono destinate a fallire

Qui non possiamo più restare appena uscito per Ronzani è il quarto romanzo di Giuliano Gallini, da tre anni scrittore a tempo pieno dopo essere andato in pensione da dirigente di una grande azienda della ristorazione, per la quale si occupava di marketing e sviluppo.

La copertina del nuovo romanzo di Gallini

Una “favola nera”, in cui gli abitanti di un piccolo centro immaginario, Murata, provano e manifestano ostilità crescente verso una piccola comunità che dà alloggio a donne in fuga, vittime di violenza o comunque bisognose di protezione. Un ex convento trasformato in uno spazio di solidarietà fondato da una donna, Marcenda, con l’aiuto di altre due, Livia e Nabilah e il supporto, successivamente, di un ragazzo: Simon “accolto, come amano scherzare, “solo perché somiglia a certe immagini di Antinoo”.

A raccontare la vicenda, molti anni dopo, Gallini immagina sia una giornalista arrivata in zona per un reportage sul caporalato, la povertà e lo sfruttamento, e ospite della comunità proprio nei giorni in cui va in scena la tragedia finale.

Quando ha iniziato a scrivere?

Come molti, da ragazzo, per lo più poesie. Poi, per via del lavoro piuttosto impegnativo e la famiglia, ho messo. Ho ripreso intorno ai 45 anni. Mi ero traferito a Reggio Emilia, proprio per via del mio lavoro. Stavo lì da lunedì a venerdì – i weekend tornavo a casa – e non avevo il televisore. Come anti stress, la sera ho cominciato a scrivere. Ma senza l’ambizione di pubblicare. Non facevo leggere niente neppure agli amici. Era un mio piacere privato.

E poi ha cambiato idea?

È stata mia moglie a dirmi di provare a vedere se qualcuno fosse interessato a pubblicare i miei libri. Abbiamo scelto un agente letterario a caso su Internet…

Davvero si può scrivere solo per sé?

Forse un retro pensiero inconscio che un giorno qualcuno mi avrebbe letto c’era. Ma, in questi giorni, sto scrivendo un nuovo romanzo che credo non leggerà mai nessuno. Neppure mia moglie. Eppure ogni mattina non vedo l’ora di ricominciare. Per il piacere in sé della scrittura. Che discende da quello della lettura. Con alcuni amici abbiamo creato due gruppi di lettura. Ogni mese ci vediamo, ci scambiamo i libri. È bello perché scopri autori e titoli che mai ti sarebbe venuto in mente di comprare.

Adesso che cosa leggendo?

Tra le nostre parole di Katie Kitamura, un romanzo “medio” e un altro, molto bello, Tomás Nevinson di Javier Marías. Ultimamente ho letto anche Franzen, il nuovo libro di Piperno.

Amici scrittori ne ha?

Ho amici che scrivono. Come Gianfranco Denes, che è un neuropsicologo, e che ha appena pubblicato La mente di Pinocchio, un saggio sulle menzogne. Ma, ormai, si sta andando verso una situazione in cui scrittori e lettori coincidono.

Un’altra buona notizia per l’editoria.

Ma io non lo ritengo così negativo…

Domanda scontata ma necessaria: da dove arriva l’idea della storia di Qui non possiamo più restare?

Io parto sempre da un’immagine che, non so perché, mi colpisce e mi accompagna. In questo caso è quella all’inizio del romanzo: una donna ferita che cammina sorretta da un ragazzo lungo un sentiero. Un’immagine che, per me, fa parte di una riflessione costante che concerne l’utopia, il desiderio degli esseri umani di creare utopie e la loro incapacità di realizzarle.

In questo caso l’utopia è quella di Marcenda che ha fondato la sua comunità di accoglienza.

Che ha chiamato Monte Verità. Come una famosa comunità nata nell’Ottocento sopra Ascona, con l’intento di liberare le persone. Ma a ispirarmi la storia è stata anche la vicenda del sindaco di Riace, Mimmo Lucano (Che da eroe è finito in tribunale con le accuse di associazione a delinquere, truffa, concussione falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ndr) che si è trovato ad avere contro la sua stessa comunità. Come Marcenda, non si era accorto che qualcosa di intorno a lui – il paese, la gente, i valori – stava cambiando profondamente.

Leggendo il suo libro, a me sono venute in mente le immagini delle persone, le donne in particolare, in fuga dall’Ucraina. Anche in questo caso non ci eravamo accorti che qualcosa stava cambiando. Nessuno si aspettava questo conflitto.

Esatto. Però è successo. E adesso veniamo a sapere dei massacri di civili. Veri? Falsi? Compiuti da chi? Quel che è certo è che i morti sono reali, le torture sono reali. Il male riappare. La giornalista e voce narrante del romanzo, alla fine dice: “L’uomo è come un pittore che si ostina a dipingere un muro con un pennello sporco di sangue”. Anche quando tentiamo di fare il bene, salta sempre fuori un pezzo di atrocità, una goccia di sangue.

Una costante dei suoi romanzi sono i personaggi femminili, quasi sempre protagoniste della storia. Un caso, una scelta, una necessità?

Be’, nel primo romanzo, Il confine di Giulia, i protagonisti erano una poetessa e Ignazio Silone, nel secondo, Il secondo ritorno, c’è anche Joseph Conrad, il terzo, Storia di Anna, in effetti, è tutto al femminile. Però, le donne dei miei romanzi non affrontano temi dello specifico femminile… Mi viene in mente L’Événement di Annie Ernaux sull’aborto. Nelle mie storie non si parla di maternità, di diritti delle donne e così via. Ma è vero che in Qui non possiamo più restare, abbiamo tre donne. Perché? Me lo sono chiesto anch’io. Forse perché le donne, per ragioni storiche, sono più inclini degli uomini a credere all’utopia. E, per questo, a rimanere deluse.

Murata, il paese dove ha luogo la storia è un posto immaginario. È la prima volta che un suo romanzo non è ambientato in un luogo reale. Ed è anche la prima volta che non mescola alla finzione personaggi realmente esistiti come aveva fatto finora. C’è una ragione particolare?

Sì. Ho voluto con questo romanzo abbandonare il realismo. Altrimenti non sarei riuscito a esprimere certi concetti che mi interessavano. Qui non possiamo più restare è un apologo, una tragedia.

Altra “anomalia”. In tutto il testo c’è un solo termine non italiano: “device”. Nella scuola fondata da Marcenda, i bambini devono lasciare i loro “device” fuori dalle aule e questo diventa uno dei motivi di scontro fra la comunità e il paese.

La storia è ambientata in un futuro molto vicino, con qualche elemento distopico che riguarda proprio l’invasività dei nostri device: telefonini, smartphone… Ho immaginato un mondo, come ripeto, molto vicino al nostro, in cui fosse obbligatorio averlo. Cosa che, di fatto, è già vera, perché senza non saremmo in grado di fare nulla.

Parliamo del suo metodo di scrittura. Intanto, ha orari e luoghi preferiti?

Scrivo dappertutto. Alla mattina, il mio cervello funziona meglio, quindi cerco di dedicare quelle ore alle parti più creative, mentre nel pomeriggio e alla sera tendo a concentrarmi sulla rilettura, a fare auto-editing.

La storia ce l’ha già tutta in mente o si sviluppa mentre la scrive?

In parte la so prima di cominciare ma, poi, come diceva Gianni Brera, il resto scende automaticamente dai polpastrelli. Nei miei romanzi ci sono personaggi, episodi, sentimenti che non avevo previsto. Poi arriva la fase della riscrittura. Correggo, sistemo, risistemo. Quindi, quella del sonno. Lascio i romanzi a dormire per un mese o due prima di rileggerli.

Diceva che sta scrivendo un nuovo romanzo che, secondo lei, non leggerà mai nessuno. Di che cosa si tratta?

Una storia un po’ autobiografica. Credo che nessun editore lo vorrà pubblicare.

Perché?

È un libro letterario che, quindi, richiede un certo impegno da parte del lettore. Proprio di recente, ho letto un articolo sul Sole 24 Ore del neurscienziato Giorgio Vallortigara in cui riporta i dati di alcune ricerche che dimostrano come leggere un romanzo faccia bene al cervello. E nel quale, spiega anche la differenza tra letteratura d’intrattenimento e letteraria. Nella prima, il ruolo del lettore è per lo più passivo, nel secondo attivo.

Quindi più fatica nella lettura equivale a un miglior esercizio cerebrale?

Esatto. Qui non possiamo più restare è un romanzo letterario, che contiene anche un “non finito”. Come nelle ultime sculture di Michelangelo: una parte del blocco non è scolpita, tocca a chi la guarda immaginare che cosa nasconda.

Insomma, buona lettura e buon esercizio.