Perché oggi non è possibile una rivoluzione

Fra inverno e primavera di quest’anno le prime pagine di quotidiani, periodici, siti di news, riviste on-line sono pieni di aggiornamenti e analisi su Francia, Regno Unito, Spagna, Israele, Germania.

Centinaia di migliaia di cittadini occupano piazze e strade, scioperano in decine di comparti lavorativi, protestano con rabbia. Le cause? Fisco iniquo, salari bassi, disoccupazione, servizio sanitario privatizzato, riforme peggiorative, riduzioni del disastrato sistema di Welfare.

La situazione italiana

In Italia sussistono da almeno un ventennio tutte queste iniquità: dunque, una larga fetta di popolazione avrebbe motivo di scendere in strada. Eppure nulla si muove; se non in zone ristrette e per cause circoscritte.

Con gli anni Ottanta si è passati dalla lunga stagione di scioperi, occupazioni, proteste, conquiste sociali, riforme parlamentari (anni metà Sessanta/fine Settanta) al trionfo del modello neo-liberista, al declino della solidarietà sociale, al graduale tramonto del Welfare.

Ci si lascia alle spalle il trentennio 1945-75 denominato dei “Trenta gloriosi”. Questa svolta è segnata dalla messa in soffitta di idee, libri, mentalità legate a parole come rivoluzione, rivolta, protesta, sciopero generale, speranza di cambiamento dal basso.

La teoria di Byung-Chul Han

Un contributo che getta uno sguardo assai acuto sull’oggi ci viene a metà strada tra Corea del Sud e Germania. Il filosofo Byung-Chul Han, infatti, è nato a Seul e insegna teoria della cultura alla Universität der Kunst a Berlino. Pur avendo 64 anni ne dimostra quindici meno: lunghi capelli neri raccolti a codino, volto sgombro da rughe, giubotto di pelle nera (il classico “chiodo” da rocker).

L’editore Nottetempo ha il merito di aver tradotto lo scorso anno un testo del 2019; titolo originale Kapitalismus und Todestrieb – Capitalismo e istinto di morte. Viene reso nella nostra lingua con un pensiero che ne riassume icasticamente il senso: Perché oggi non è possibile una rivoluzione.

Le ragioni per cui ribellarsi è difficile

Chi lo prendesse in mano coltivando speranze di cambiamento sociale dal basso sospetterebbe l’autore di sicumera o arroganza, considerando l’assertività del titolo italiano. In realtà, gli argomenti usati e i temi trattati da Han si prestano a proficue discussioni.

Per il filosofo sudcoreano i punti centrali sono assai chiari quanto efficaci nell’ostacolare qualsiasi velleità rivoluzionaria:

  • il Capitale nella versione globalizzata risulta stabile da qualche decennio, malgrado eventi come la crisi dei subprimes del 2007 o gli attacchi di Al Quaeda dell’11 settembre 2001;
  • il potere disciplinare risulta meno efficace di quello oggi diffuso e capillare: il modello di potere che rende le persone volontariamente dipendenti verso economia, politica, società;
  • il nemico non esiste più, nel senso che il Capitale diffuso e capillare si mostra capace di assumere mille volti risultando ai limiti dell’invisibilità;
  • le moltitudini di contestatori di mezzo secolo fa sono scomparse dalla fine degli anni Settanta;
  • le condizioni psicologiche di massa influenzano profondamente l’attitudine politica; o meglio, la sua preoccupante assenza

Scrive Han in un passaggio di particolare chiarezza:

La concorrenza universale aumenta senza dubbio la produttività a livelli spaventosi, ma distrugge la solidarietà e il senso di comunità, giacchè non può nascere una massa dedita alla rivoluzione mettendo insieme individui esausti, depressi e isolati. (p. 13)

Ogni persona è un individuo esausto dalle richieste crescenti di un mondo del lavoro ridotto a giungla senza regole; depresso perché il consumare senza motivo né criterio non lo rende di certo felice; last but not least, isolato a causa della rottura da qualche decennio della solidarietà – fondamentale vincolo che legava coloro che animavano il ciclo di lotte sociali negli anni ‘60/70.

Sfruttamento e sorveglianza

Il passaggio nella strutturazione del Potere, evidenziato da Michel Foucault e Gilles Dileuze già mezzo secolo fa

Autorità >Disciplina > Sorveglianza

fa sì che i meccanismi di sfruttamento siano perfezionati dalla compresenza di quelli di sorveglianza. Non è più tempo di fabbriche-lager, semplicemente perché ne è caduta la necessità.

Jeremy Bentham, filosofo ed economista inglese di prima metà Ottocento, progetta una struttura di sorveglianza e la chiama (dal greco antico “ciò che tutto vede”) Panopticon. Si tratta di un modello, inizialmente di prigione, in cui le celle sono disposte in edifici a raggiera con al centro un’alta torre di sorveglianza. Da essa nulla sfugge alle guardie nel controllare i detenuti.

Schiavi di noi stessi

Han parla di “panottico digitale”, meccanismo d’infernale sofisticatezza in cui gli individui sono al contempo prigionieri e carnefici, contribuendo essi stessi a creare il panottico.

Oggi gran parte delle strutture e dinamiche della società di capitalismo finanziario risultano trasparenti, ingenerando la falsa impressione di democraticità e comunicazione con la cittadinanza. In realtà, la trasparenza medesima viene ideologizzata in maniera feticistica e totalizzante (totalitaria). La società di trasparenza si fa ben presto società di controllo.

Ancora Han:

La società del controllo segue la logica di efficienza della società della prestazione. L’autosfruttamento è più efficiente dello sfruttamento da parte di terzi, in quanto si accompagna a un senso di libertà. (p. 60)

Un concetto, questo, già anticipato dal Marcuse de L’uomo a una dimensione nel 1964: fornire l’illusione di essere liberi ipoteca qualsiasi discorso di critica radicale del Sistema.

Il ruolo dei politici

Non siete mai stati così bene come oggi”, è il refrain di molti leader politici sin dai tempi del miracolo economico.

Come già Claus Offe (nella raccolta di scritti Lo Stato nel capitalismo maturo, in versione italiana 1976 per Etas/Kompass editore), anche Han sottolinea la contiguità istituzionalizzata fra Politico ed Economico.

I politici vengono definiti dallo studioso tedesco/coreano come “tirapiedi compiacenti del sistema“.

Se la politica non offre concrete alternative ma si limita ad amministrare il quotidiano risulta indistinguibile dalla dittatura.

L’autosfruttamento comporta:

maggiore produttività

azzeramento della coscienza di classe

addormenta velleità di protesta

fidelizza i lavoratori e i consumatori al Potere

E da una massa di schiavi tra il rassegnato e l’abitudinario difficilmente ci si può aspettare una sollevazione. L’incapacità d’intravedere appena un futuro diverso è del tutto ipotecata.

Fino a oggi questa tecnica di dominio riesce a neutralizzate ogni granello di resistenza con livelli di efficienza, pulizia, tranquillità mai visti prima.

È questa la lucida, eppur sconsolata conclusione di Byung-Chul Han.