Pier Paolo Pasolini e la poesia dei calci di rigore

Mi perdonerà il lettore di questa recensione su Tortuga Magazine se comincio con un aneddoto personale.

Ho trascorso otto anni della mia vita professionale alla Gazzetta dello Sport. Lì, tra le varie, c’era una tradizione chiamata Christmas Cup, una partita che solitamente di disputava appunto intorno a Natale (ma a volte si è arrivati a giugno…) tra una selezione della redazione Calcio, la più numerosa, e quella di tutte le altre redazioni (Sport olimpici, Ciclismo, Motori, Allegati etc.).

Al prestigiosissimo match era sempre presente, anche quando l’età e il fisico oltre il quintale lo avrebbero sconsigliato, uno dei caporedattori più amati (e scomparso maledettamente troppo presto), Daniele Redaelli, più come centroboa che come centravanti.

Un anno, non saprei dire quale, ci troviamo in panchina insieme, io perché “scarpone” lui a rifiatare, e mi dice: “Guardali. Li vedi giocare e capisci come sono al lavoro. Chi è cattivo in campo in fondo vedrai che è cattivo anche lì, chi altruista altruista, chi egoista egoista, chi generoso generoso. Il campo da calcio non ti permette di fingere. Sei quello che sei. E le capacità tecniche qui non c’entrano.”

Naturalmente sono parole applicabili a qualsiasi situazione di fatica e difficoltà, quando difficilmente viene fuori il meglio di noi (ah, come lo abbiamo capito bene in questi due anni) bensì la nostra vera natura.

Ma mi sono tornate in mente leggendo con grande piacere Il capocannoniere è sempre il miglior poeta dell’anno di Alessandro Gnocchi, pubblicato da Baldini+Castoldi nella collana Le Boe (Pagg 117, euro 16). Il titolo è una citazione di Pier Paolo Pasolini, che compare in copertina in maglietta e pantaloncini palla al piede, e il sottotitolo Calcio e letteratura dovrebbe spiegarci con che cosa abbiamo a che fare.

Dico “dovrebbe” perché in realtà questo libretto di un centinaio di pagine è molto di più.

Certo, e Gnocchi lo spiega subito nell’introduzione intitolata Riscaldamento, l’obiettivo è quello di raccontare in un elenco ampio e ragionato quanto il calcio, i suoi interpreti e i suoi riti in campo e sugli spalti abbiano influenzato la letteratura intesa nel più ampio senso possibile: poesia (Primo tempo), narrativa (Secondo tempo), cinema e televisione (Primo tempo supplementare) e canzoni (Secondo tempo supplementare).

E quello che ne esce un racconto fluido, a tratti colto, altri divertente, spesso profondo se non addirittura commovente, che porta il lettore a spasso tra campioni di ieri e di oggi così come tra autori di ieri e di oggi.

Basta dare una scorsa agli indici per venire travolti da centinaia di nomi – dalla A di Abatantuono alla Z di Zola – e di titoli di opere, brani musicali e poesie – dalla A di A Bruno Giordano di Valentino Zeichen alla W (niente Z…) di We Are the Champions dei Queen.

Eppure questo viaggio propone spesso deviazioni che portano altrove. Per esempio alla riscoperta di scrittori di casa ingiustamente dimenticati (uno per tutti, Giovanni Arpino di Azzurro tenebra).

Oppure alla consapevolezza che a volte su alcuni temi, rispetto ad altri Paesi come quelli anglosassoni che hanno fatto della narrazione dell’epica sportiva un punto di forza e di onore, siamo arrivati primi, anche se quasi sempre non riconosciuti.

Oltre alla conferma della tesi di José Mourinho quando dice che una partita “è la rappresentazione più fedele della natura umana e delle sue varie componenti.

Ma mi spingo più in là. E chiedo di nuovo scusa se anche in chiusura ricasco in una citazione personale. Il mio professore di Filosofia al liceo, in epoca in cui il politicamente corretto per fortuna non imperversava, diceva che noi ragazzi avevamo in testa solo due cose. Entrambe iniziavano con la C, una è intuibile trattandosi di una classe interamente maschile l’altra era naturalmente il calcio.

Io credo che, rispettosamente parlando da padre di figlio adolescente, poco sia cambiato. E di conseguenza sarebbe bello che questo libro finisse nelle mani di qualche professore lungimirante che potesse consigliarlo ai suoi studenti con la scusa che di pallone si tratta.

Per poi sentirsi magari chiedere chi è quel Luzi che dedica una poesia al Grande Torino, o quel Bianciardi che poteva fare il trequartista o quel Soriano che pensava coi piedi.

Sarebbe bello.

Bello come un calcio di rigore decisivo. Come quelli che Gnocchi racconta nel suo ultimo capitolo, il più intimo, il più libero e forse il più vero.