Parafrasando Fabrizio de André: quando cantante lo fu veramente, Piero Pelù, «non volle tradire il bambino per l’uomo». È questo il bilancio con saldo in positivo, il filo narrativo che cuce le memorie del cofondatore del gruppo Litfiba nell’autobiografia Spacca l’infinito, il romanzo di una vita (Giunti editore). Perché pirata e viaggiatore lo è stato fin dalla prima lettura de La giungla nera di Emilio Salgari, pacifista dagli ammonimenti di suo nonno Mario – «Le armi non si puntano in faccia nemmeno se sono dei giocattoli!» – superstite della Grande Guerra, e amante della natura ed ecologista dalle scarpinate con il padre sul monte Morello, sopra Firenze. A Piero Pelù piace raccontarsi, e cosa più importante ha come primo interlocutore il se stesso bambino, l’unica persona da non deludere mai, in un incontro onirico nel Giardino di Boboli.
Approfittando della stasi forzata, della sospensione del tempo durante il lockdown, l’unica concessione che il cantautore può fare all’immobilità, al placcaggio della sua ininterrotta iperattività, come l’Abramo Lincoln filmato da Steven Spielberg, sceglie la narrazione. Quello che lo distingue dalle innumerevoli autobiografie di rockstar, attori e sportivi, è il prediligere il racconto dell’uomo, della sua formazione musicale, famigliare e sentimentale, rispetto alla didascalica cronologia dei successi in classifica e dischi elencati secondo un parametro da Wikipedia. Pelù sa mettere in secondo piano l’artista e il personaggio pubblico per puntare i riflettori sul privato, con discrezione, e senza lasciare che l’ego da frontman ne pregiudichi il ritratto. Così, se il racconto personale procede componendo un mosaico, aggiungendo gradualmente i tasselli di quello che poi diventerà la figura centrale dei Litfiba, dall’innamoramento per Arlecchino grazie allo spettacolo con Ferruccio Soleri all’Antologia di Spoon River musicata da Fabrizio de André, dal primo viaggio a Parigi con l’ascolto di Paranoid dei Black Sabbath ai pomeriggi trascorsi al Contempo, negozio di dischi, scoprendo il primo punk, Spacca l’infinito diventa una cronaca generazionale di un tempo perduto, in cui la maggior parte degli over trenta saprà ritrovarsi con facilità. Con i suoi soprannomi da Jack Frusciante è uscito dal gruppo, un esame di stato molto simile a quello sostenuto da Max Mazzotta nel film Paz! di Renato De Maria, la lettura corale della rivista Il Male e le prove del primo gruppo, i Mugnions, in un garage non abbastanza insonorizzato da far tremare l’intero palazzo. L’autobiografia di Pelù ci riconsegna all’Italia che progettava il proprio avvenire nelle camerette, dalle cuffie dei walkman e dai giri senza meta in motorino nelle città deserte. Una generazione che tesseva la propria rete internazionale prima dei social grazie alle vacanze studio e alle lettere scambiate con i fanatici di musica incontrati ai concerti. Un tempo che riconosceva ancora le geografie della città, il rispetto dei caratteri dei suoi quartieri, prima che il turismo di massa e la gentrification omologasse tutte le capitali europee, da Berlino a Lisbona.
Pelù, riserva un posto privilegiato e descrive con particolare cura l’attenzione che in quegli anni la gioventù attribuiva al viaggio. Dall’osservazione del mappamondo fino alla scoperta e ricerca con metodo Joe Strummer delle musiche dal mondo, si sofferma a lungo sulle destinazioni più remote raggiunte, alternando l’ingenuità e l’ironia delle disavventure in Messico alla gioia delle celebrazioni per il culto di santa Sarah in Francia. Meno Bruce Chatwin e più Gabriele Salvatores, ma senza mai avere la superficialità del turista. Sarà per questo che proprio a Corso Salani, regista della serie di film I confini d’Europa, che fu affidato il primo videoclip dei Litfiba, Guerra, documentando il primo tour europeo a Berlino e nell’Est Europa: con la dissoluzione dei blocchi del continente, la fine della Guerra Fredda e l’apertura dei confini. Pelù testimonia la voglia di scoprire e sperimentare nuovi modi di vivere, aprirsi e conoscere anche chi è distante, accogliere la diversità come un valore e mai come un motivo di pericolo.
Alla soglia dei quarant’anni di attività musicale, Piero Pelù scende dal palco costretto dalla pandemia e si concede un bilancio, tra educazione sentimentale e artistica, una panoramica degli anni trascorsi a inseguire la coerenza verso se stesso, soddisfatto dal non aver mai disatteso i sogni e le ambizioni del bambino che da grande voleva fare il pirata.